venerdì 23 dicembre 2016

Tanti auguri di buone feste


Buongiorno a tutti!
Come procedono i preparativi per il Natale?
Questo post vuole essere prima di tutto un post di scuse. Sì, perché speravo di scrivere un'ultima recensione prima di Natale ma una serie di scadenze di lavoro mi sono piombate addosso una dopo l'altra e ora so per certo che non riuscirò a prepararla.
Questo, quindi, sarà il mio ultimo post prima della fine dell'anno. Questo 2016 per me è stato un anno di svolte, in molti sensi e con i loro alti e bassi, ma pur sempre di cambiamenti importanti. Uno di questi è stata la nascita di questo blog e la mia risoluzione, per una volta nella vita, a mantenere un impegno e portare avanti un progetto cui tengo davvero moltissimo. Voglio ringraziare tutte e tutti voi che avete conosciuto, letto e commentato il mio blog in questi mesi. So di essere ancora inesperta e di avere ancora molte cose da imparare, ma so anche che farò del mio meglio per far crescere questo piccolo spazio virtuale e che il vostro contributo è stato e sempre sarà fondamentale in questa mia scelta.
Ho molti post e recensioni in programma per il nuovo anno e ad alcuni sto già iniziando a lavorare, quindi non dimenticatevi di me, mi raccomando! 

Nel frattempo, vi auguro un felice Natale e un meraviglioso anno nuovo.
Grazie per esserci stati almeno un po' :) E che Babbo Natale vi porti tanti regali libreschi ;)

A rileggerci nel 2017!

sabato 17 dicembre 2016

"The Red Queen" di Philippa Gregory


Da un po' di tempo non mi dedico alla fiction storica e anche questa in effetti è una lettura di un po' di tempo fa che da molto aspettavo di recensire. E visto che prossimamente pensavo di riprendere in mano la serie ho pensato che fosse giunto il momento di parlare anche di questo libro.

The Red Queen è il secondo libro della serie The Cousins' War di Philippa Gregory, dedicata alle donne della Guerra delle due rose, combattuta tra York e Lancaster nell'Inghilterra del XV secolo. Se il primo libro vedeva come protagonista Elizabeth Woodville, è naturale conseguenza che il secondo voglia la sua nemica e rivale Margaret Beaufort, madre del futuro re Enrico VII. La storia è la stessa raccontata nel precedente: la sconfitta dei Lancaster da parte degli York e i continui intrighi politici a seguire fino alla grande battaglia che culmina nella vittoria di Enrico VII e nel suo matrimonio con Elizabeth, figlia della Regina bianca e del Re Edoardo IV di York. A cambiare è però il punto di vista attraverso il quale tutto è raccontato, dando l'impressione di trovarsi a leggere una storia completamente nuova solo lontanamente connessa a quella raccontataci attraverso gli occhi di Elizabeth Woodville.


sabato 10 dicembre 2016

La letteratura femminile fiorisce in Giappone

Il primo post della nuova rubrica Storie al femminile è dedicato a un tema che mi sta molto a cuore e che è stato anche l’argomento di fondo della mia tesi di laurea. È stato davvero difficile per me scrivere questo articolo, non tanto per l’estrema complessità dell’argomento in sé, ma perché è una parte della storia e letteratura giapponesi che amo così tanto da rischiare di diventare eccessivamente prolissa. Ad ogni modo, questo post mi servirà anche per introdurre una recensione che intendo postare prossimamente, quindi spero di suscitare almeno un pochino il vostro interesse. 

Quando si parla di epoca d’oro della letteratura femminile molti penseranno a nomi quali Jane Austen o le sorelle Brontë, le grandissime autrici inglesi che scrissero i loro capolavori tra il XVIII e il XIX secolo, spesso nascondendosi inizialmente dietro nomi maschili per meglio aprirsi la strada verso la pubblicazione, che per le donne non era ancora così semplice né scontata. Pochissimi però sapranno che già tra il IX e l’XI secolo il Giappone visse un periodo di immenso splendore artistico di cui proprio le donne furono protagoniste indiscusse. 



venerdì 2 dicembre 2016

Storie al femminile, nuova rubrica!

Buongiorno a tutte e a tutti :)

Questo post per annunciare l'apertura di una nuova rubrica del blog: Storie al femminile. Le storie che vedrete narrate in questo spazio saranno le più disparate: singoli episodi o biografie di donne della cultura e non solo, storie di gruppi femminili o movimenti, ritratti femminili di uno specifico periodo storico o paese, e chissà, magari un giorno potrebbe ospitare anche qualche intervista. Unico denominatore comune saranno ovviamente le donne, il loro vissuto e le loro esperienze.

Come mai questa rubrica? A dire il vero era da un po' che ci pensavo, dovevo solo capire chiaramente quale impronta affidarle. Biblioteca al femminile nasce come blog letterario e questo è ciò che è determinato a rimanere. Però mi sono posta una domanda, ovvero: cos'è davvero una biblioteca? Una biblioteca è un luogo che ospita molti libri, certo; ma la biblioteca è anche il luogo dove – grazie a questi – si va per imparare, per conoscere, per fare ricerca e allargare i propri orizzonti. Oggi molte biblioteche organizzano anche corsi ed eventi aperti al pubblico. Proprio per questo mi sono chiesta se non fosse il caso di prendere alla lettera tutto questo e creare uno spazio in cui la donna sia veramente protagonista attraverso le sue storie narrate non solo attraverso i libri che scrive o di cui è protagonista, ma anche attraverso il blog stesso. Ed è così che è nata l'idea di questa rubrica, che non ha alcuna intenzione di sovrastare i post di recensioni libresche ma che mira piuttosto a completarli.

Biblioteca al femminile nasce per celebrare e "pubblicizzare" il contributo femminile alla cultura e la visione della donna all'interno della stessa, attraverso questa nuova rubrica mi auguro quindi di riuscire a offrire un maggiore contributo a questo proposito e di succedere nel mio intento di approfondire ulteriormente le tematiche qui proposte.
Il primo post della rubrica è in fase di stesura – e ammetto che mi sta dando non poco filo da torcere – e arriverà presto sulle pagine del blog!

giovedì 24 novembre 2016

"L'Abbazia di Northanger" di Jane Austen



L'Abbazia di Northanger è il primo romanzo completato in età giovanile da Jane Austen ma che, per via di un cambiamento di rotta della casa editrice che si era incaricata di pubblicarlo, rimase a lungo nell'ombra per vedere finalmente la luce solo in seguito alla morte dell'autrice, nel 1817.
Amo follemente tutti i libri della Austen che ho letto finora, l'ho sempre trovata un'autrice brillante (e come negarlo!) ed estremamente intelligente che ha saputo raccontare con acume e ironia storie di tutti i giorni della media borghesia inglese, arricchendo di attrattiva episodi che in mano ad autrici non altrettanto perspicaci avrebbero rischiato di passare per banali ed eccessivamente sdolcinati. L'abbazia di Northanger è probabilmente il meno apprezzato di tutti i libri della Austen ma, a mio parere, forse anche il meno capito tanto da finire spesso con l'essere fin troppo sottovalutato. Personalmente, ho adorato questa lettura dalla prima all'ultima pagina e spero con la mia recensione di poterle rendere almeno in parte giustizia.


venerdì 18 novembre 2016

"Scarlet" di Marissa Meyer



Quando un po' di tempo fa lessi Cinder, primo volume delle tanto decantate Lunar Chronicles di Marissa Meyer, ne rimasi un po' delusa: se da una parte, infatti, la storia della giovane cyborg meccanica era ricca di spunti interessanti, dall'altra era troppo prevedibile, poco coinvolgente, e con personaggi e ambientazioni a mio parere non sufficientemente sviluppati. Ciononostante, decisi di voler dare una possibilità alle buone idee dell'autrice e mi ripromisi che avrei letto anche il secondo volume, Scarlet. Ebbene finalmente sono riuscita a leggerlo e devo confessare di non essermi affatto pentita della mia scelta. 
Di seguito ha inizio la recensione di Scarlet, ci tengo a precisare che conterrà numerosi spoiler da Cinder per cui, se non avete ancora letto il primo volume, vi consiglio di astenervi dalla lettura.


venerdì 4 novembre 2016

"Chi ti credi di essere?" di Alice Munro


In Giappone l'autunno è considerato la stagione della lettura per antonomasia tanto da aver coniato appositamente l'appellativo "dokusho no aki" – letteralmente, l'autunno della lettura. Per non tradire le aspettative che questa stagione porta con sé tra settembre e ottobre mi sono completamente immersa nella lettura dei generi più disparati (anche se purtroppo non sono riuscita a trovare il modo di buttar giù qualche post) rispolverando, tra i tanti, i vecchi libri di Harry Potter che ho iniziato a rileggere. Quello di cui parlerò oggi, tuttavia, non ha niente a che vedere né con Harry Potter né con le mie letture autunnali, si tratta bensì di uno dei libri che avevo letto sul finire dell'estate e che da tempo aspettavo di recensire.

Sono sempre stata curiosa di provare a leggere qualcosa di Alice Munro fin da quando ha vinto il nobel per la letteratura; alla fine la mia scelta è ricaduta su Chi ti credi di essere?, una delle sue prime opere, non per un motivo preciso ma semplicemente perché l'avevo trovato in una promozione, il che non rappresenta forse il miglior criterio per scegliere il libro con cui iniziare a conoscere un autore. Ma passiamo alla recensione :)

sabato 22 ottobre 2016

"La piccola principessa" di Frances Hodgson Burnett


Credo che scegliere da adulti di riprendere in mano un libro della propria infanzia rappresenti un po' un'arma a doppio taglio. Se da una parte ha infatti il vantaggio di riportarci indietro nel tempo e farci rivivere emozioni nostalgiche di un lontano passato; dall'altra, rischia di lasciarci con un'amara delusione dovuta a una inevitabile lettura più critica e consapevole che potrebbe rovinare la magia dei ricordi.
Onestamente non ricordo se mai ho letto La piccola principessa in passato, ma so per certo di aver visto innumerevoli volte il film del 1995 così come la serie animata. Entrambe le trasposizioni, ma soprattutto il film, rimangono un piacevolissimo ricordo della mia infanzia e mi tornano ancora in mente come fossero ieri le serate trascorse sul letto dei miei genitori a godermi questa dolcissima fiaba.


domenica 16 ottobre 2016

Liebster award 2016



In questi giorni riuscire a trovare il tempo per scrivere un post è veramente difficile e ho una lista infinita di libri da recensire che non accenna a diminuire. Ma oggi non sono qui per una recensione bensì per un'altra cosa che mi da moltissima soddisfazione :)
Un po' di tempo fa – con mio gaudio e immensa sorpresa – sono stata nominata per il Liebster award, un premio da assegnare a undici blog con meno di 200 iscritti. È passato un po' ormai da quando sono stata nominata, per via di tutta una serie di impegni non sono più riuscita ad aggiornare con frequenza il blog, ma avevo detto che non me ne sarei dimenticata e finalmente eccomi qui :)

Chi viene nominato per questo premio deve seguire una serie di step predeterminati, ecco allora di seguito i miei:


1. RINGRAZIARE CHI TI HA NOMINATA

Grazie infinite a Virginia di Virginia e il labirinto, una delle mie primissime lettrici nonché una delle più fedeli. Grazie davvero per avermi nominata!


2. SCRIVERE QUALCOSA RIGUARDO UN BLOG CHE SEGUI

Seguo diversi blog, anche se non moltissimi ancora. Un blog che seguo da prima ancora di diventare io stessa una blogger e che ho sempre amato è Biblioteca giapponese, uno spazio interamente dedicato  – come da titolo – alla letteratura giapponese con recensioni, novità, curiosità e simpatiche iniziative. Se vi interessa anche solo un po' la letteratura nipponica, Biblioteca giapponese è senza dubbio il posto che fa per voi grazie anche alla creazione, in collaborazione con altri blog, di un bookclub tutto al giapponese. Vi consiglio di passare a dargli un'occhiata perché merita veramente :)


3. RISPONDERE ALLE DOMANDE DEL BLOG CHE TI HA NOMINATA

• Perchè hai scelto proprio quel preciso nome per il tuo blog?
Ad essere sincera non ci ho pensato a lungo: volevo un nome che fosse immediato, semplice da ricordare e che desse chiaramente l'idea del contenuto del blog. Biblioteca al femminile – e NON "biblioteca femminile" – è stata fin da subito la scelta più ovvia.

• Hai un genere di letture di comfort o ti piace spaziare?
Sono una lettrice onnivora e mi piace leggere un po' di tutto, generalmente non leggo mai due libri dello stesso genere uno di seguito all'altro ma appena finisco un genere ho voglia di passare a qualcosa di diverso, così cambio continuamente la tipologia di letture. Il mio più grande amore rimangono però i classici, ultimamente affiancati dai romanzi storici.

• Nomina un adattamento cinematografico di un libro che ti ha soddisfatto.
Mmh... questa è dura! Credo che tutto sommato i film della saga di Hunger Games mi abbiano piuttosto soddisfatta, in particolare il primo visto che negli altri due ho trovato comunque delle cose da ridire XD

• Puoi entrare dentro a un libro. Quale e perchè?
Harry Potter, assolutamente! Andiamo, chi non ha mai desiderato ricevere la sua lettera via gufo, salire sull'espresso per Hogwarts, essere smistato in una delle case, percorrere i corridoi della celebre scuola di magia e prendere parte alle lezioni? Magari anche conoscere qualcuno dei tanti personaggi che abbiamo imparato ad amare leggendo la saga. Darei ogni cosa pur di poter conoscere Luna e Ron!

• Un autore di cui compri ogni libro che esce, senza neanche leggere la trama.
Classici a parte, ora come ora direi Philippa Gregory. Ho già sei libri suoi e tutti gli altri sono nella mia wishlist di Amazon, e molti non ho nemmeno la più pallida idea di cosa trattino.

• Cosa ne pensi del self-publishing?
Come sempre sono una persona molto incoerente, per cui predico bene e razzolo male. Sono assolutamente favorevole al self-publishing perché da la possibilità ad autori emergenti di fare quello che le case editrici non permettono loro di fare: far conoscere i propri lavori. Al contempo, è anche vero che questo apre le porte un po' a tutti, da autori decisamente promettenti ad altri che –diciamocelo – farebbero meglio a cambiare lavoro, e proprio per questo tendo a guardare sempre con sospetto alle opere self-publishing e l'unica che abbia mai letto è stata un libro scritto da una mia cara amica.

• Consiglia un autore del tuo genere preferito.
Ahia... credo che con questa domanda rischierei di cadere nel banale, e lo farò. Come ben sapete sono una appassionata dei grandi classici e un'autrice che, in questo genere, penso meriti di essere letta da tutti è decisamente la mia amata Jane Austen che non credo abbia bisogno di presentazioni ;) Per quanto riguarda i romanzi storici, anche se l'ho già citata poco più su, direi decisamente Philippa Gregory. Per quanto ami questo genere non ho ancora letto molto e non saprei dire se possa essere considerata la migliore – e forse non lo è – ma penso sia decisamente quella più facilmente avvicinabile poiché, pur rimanendo fedele ai fatti storici, riesce a rendere le sue storie molto più romanzate rispetto a quelle di altre autrici privandole di quell'impronta fortemente biografica che romanzi di questo genere rischiano di assumere.

• Se dovessi scegliere il protagonista di un libro come migliore amico (o amica, ovvio), su chi ricadrebbe la tua scelta?
Sarò ripetitiva ma decisamente Luna Lovegood di Harry Potter! La trovo semplicemente geniale e splendida.

• L'amore per la lettura te l'ha trasmesso qualcuno o ti è nato spontaneamente, in un terreno "inospitale" (ovvero senza nessun incoraggiamento esterno)?
Direi decisamente la seconda. I miei non sono mai stati grandissimi amanti della lettura, anche se da piccola hanno sempre cercato di incoraggiare la mia passione riempiendomi di libri. Sono nata in un piccolo paese che non mi è mai stato particolarmente congeniale e ho sempre desiderato andarmene, la letteratura è diventata il mio mezzo per evadere e conoscere luoghi e persone interessanti che stimolassero la mia curiosità.

• Se potessi eliminare un libro dalla faccia della Terra, quale sarebbe?
Cinquanta sfumature di... tutti i colori che seguono. Non ho mai letto per intero nessuno dei libri della serie perché non mi hanno mai ispirato, ma visto il grande successo ho deciso di cercare un po' di citazioni online e... oddio, se quelle che ho trovato erano – a detta delle fan – le parti migliori, non oso immaginare le altre. Che orrore!

• C'è un libro "speciale" per te? Se si, quale?
Ce n'è più di uno, ma se dovessi scegliere allora sarebbe senza dubbio lui: "La storia di Genji" di Murasaki Shikibu, il mio libro preferito in assoluto e quello che mi ha convinta a dare una svolta alla mia vita. Non sarei la stessa oggi se non fosse per il Principe Genji e le sue meravigliose donne, e probabilmente non starei nemmeno scrivendo questo blog.


4. SCRIVI 11 COSE DI TE

1) Sono meteoropatica da far schifo, il che vuol dire che nei giorni di sole posso essere la persona più attiva del mondo e spaccare tutto, ma quando fa freddo/è nuvoloso/c'è nebbia/tira vento/qualsiasi altra cosa divento una sorta di larva dolorante, nervosa e incapace di fare qualsiasi cosa XD

2) Amo Sailor Moon e le principesse Disney e, per la gioia del mio ragazzo, abbiamo la casa piena di goods a tema!

3) Adoro tè e tisane bollenti e da settembre a maggio non bevo altro, soprattutto adoro affondarmi nel divano con un bel libro in una mano e un tè caldo nell'altra.

4) Amo le riletture, soprattutto delle saghe. Una volta ho deciso di rileggere tutti gli Harry Potter di seguito e per i tre mesi successivi ho continuato a fare sogni a tema ogni notte, anche con risvolti inquietanti del tipo: Harry che si innamora della McGonagall XD

5) Da bambina volevo fare l'astronoma, poi ho scoperto che bisognava studiare matematica e surrogati e ho rinunciato. Allora sono passata a voler fare la scrittrice, ma ho presto capito di non avere un minimo di fantasia. Così mi sono trovata a studiare la letteratura e a fare l'aspirante traduttrice (sì, mi si prospetta una vita di povertà!).

6) Non mi piace prendere i libri in prestito, né da amici né dalle biblioteche. Fin da piccola ho sempre considerato libri e fumetti un oggetto personale e non ho mai letto nulla prima di poterlo comprare con le mie finanze (il che non sarà certo di aiuto al mio futuro di povertà).

7) Da piccola sognavo di essere come Jo March.

8) Amo leggere i libri in lingua originale. Per ora leggo in inglese e in giapponese, ma mi piacerebbe imparare a farlo anche in francese (il mio sogno è leggere I miserabili in lingua originale *_*).

9) Adoro le fiabe e sto cercando di recuperare libri di fiabe di ogni paese (purtroppo l'attuale carenza di finanze non mi è di aiuto).

10) Ogni anno, in periodo natalizio, è ormai tradizione per me riguardare tutti i film di Harry Potter.

11) Ho la tendenza ad amare personaggi che di solito la massa detesta e odiare personaggi che piacciono a tutti.


5. LE 11 DOMANDE DA ME FORMULATE ALLE QUALI I BLOG DA ME NOMINATI DOVRANNO RISPONDERE

1) Un personaggio femminile che vorresti incontrare? E uno maschile?
2) Un genere che proprio non fa per te?
3) Qual è il libro che ha fatto nascere in te la passione per la lettura?
4) Un personaggio in cui ti riconosci?
5) La tua fiaba preferita da bambino?
6) Un libro di cui vorresti completamente cambiare il finale?
7) Un personaggio che tutti odiano ma tu adori?
8) In quale momento della giornata preferisci leggere?
9) Un libro già esistente che vorresti aver scritto tu?
10) Un libro che ti ha cambiato la vita?
11) Da quale autore vorresti ricevere consigli di scrittura?


6. NOMINA 11 BLOG CON MENO DI 200 ISCRITTI

Non conosco ancora moltissimi blog – e conto sui vostri post per scoprirne di nuovi ;) – ma questi sono quelli che mi sento di nominare:
1) La nostra passione non muore ma cambia colore
2) A Game of TARDIS
3) Capitolo Zero
4) Divine ribelli
5) Looking for wonder
6) Sara tra i papaveri
7) Storie di pagine
8) What we talk about when we talk about books?
9) Un tè con Jane Austen
10) Bookish Brains
11) Paper Leaves

venerdì 7 ottobre 2016

"La signora Dalloway" di Virginia Woolf

Salve a tutti! Oddio, mi rendo conto che sono passati già venti giorni dall'ultima volta che ho aggiornato il blog e chiedo scusa per questa enorme mancanza. Le ultime due settimane mi hanno vista alle prese con un sacco di impegni tra viaggi, lavoro (che di solito non ho quindi dovrei vederla come una cosa positiva!) e scadenze varie; sono riuscita a fatica ad aprire un libro, figuriamoci a scrivere qualcosa.
Mi scuso veramente per questa lunga assenza e prometto di tornare più attiva che mai! Oggi, intanto, è finalmente giunto il momento di una recensione cui tengo molto.


Lasciatemi fare una premessa: io AMO Virginia Woolf. La sua prosa encomiabile, la complessa costruzione psicologica dei suoi personaggi, la profondità delle sue osservazioni... È una di quelle autrici che hanno il potere di entrarti dentro e smuovere qualcosa di importante, di riempire ogni piccolo vuoto con l'intensità delle sue storie e delle sue parole. È senza dubbio una delle mie autrici preferite, nonostante abbia letto ancora molto poco di suo, e sono determinata a recuperare tutto ciò che mi manca nel più breve tempo possibile. Ma ora passiamo alla recensione :)

Dio solo sa perché ci piace tanto, perché la vediamo così, ce la inventiamo, la fantastichiamo, la facciamo e disfacciamo ogni momento diversa; e così fanno anche le donne più disgraziate, gli uomini più miserabili, buttati su un marciapiede (inebetiti a forza di bere); e non ci sono atti del Parlamento che tengano, proprio per questa ragione, ne era sicura: perché anche loro amano la vita.
La storia de La signora Dalloway si svolge nell'arco di poco meno di ventiquattrore che vanno dalla tarda mattinata, in cui l'omonima protagonista si reca ad acquistare i fiori per la sua festa, alla notte che farà da sfondo alla festa sopracitata riunendo in un unico luogo alcune tra le più importanti figure della borghesia inglese. Clarissa Dalloway, con la sua fredda bellezza, l'insensibilità nei confronti della povertà e il suo essere schiava della vanità e di pensieri effimeri, incarna alla perfezione il simbolo della ricchezza materiale e del profondo vuoto interiore di cui questa classe borghese si fa portatrice. Ma Clarissa nasconde anche un complesso mondo interiore, frutto di una passata malattia che non viene mai realmente approfondita, e che la trascina senza sosta dal provare un intenso amore per la vita al temerla al punto di sentirsi completamente inerme davanti alla sua imponenza.

Attraversarono la strada, il signore e la signora Warren Smith, e dopo tutto, che c’era in loro che attirasse l’attenzione, tanto da fare sospettare a un passante che proprio quel giovane uomo portava dentro di sé il più grande messaggio del mondo, ed oltre a questo, era non solo l’uomo più felice del mondo, ma anche il più disperato?

Un solo personaggio sembra condividere il profondo disagio di Clarissa: si tratta di Septimus Warren Smith, un veterano della prima guerra mondiale che soffre di disturbi mentali. Septimus è di fatto l’unico personaggio della storia a non figurare tra le conoscenze di Clarissa e, di conseguenza, l’unico (insieme alla moglie) a non prendere parte alla sua festa; eppure le due figure sono molto più vicine di quanto possano immaginare ed è proprio nel comportamento di Septimus che sembrano prendere forma i pensieri di Clarissa.

Ebbe la curiosa impressione di essere invisibile; non vista; non conosciuta; e d’un tratto non ci furono più né matrimonio né figli, ma soltanto quella stupefacente, e piuttosto solenne processione insieme con tutti gli altri, su per Bond Street; e questo era essere la signora Dalloway, non più Clarissa, solo la signora Dalloway.

Ma il fascino di questo romanzo sta nei suoi veri protagonisti che, a mio parere, non sono i personaggi con le loro azioni bensì i loro pensieri, sentimenti e ricordi che si rincorrono per l’intera narrazione lasciando in secondo piano i fatti concreti. La ricerca dell’identità è uno dei temi portanti del romanzo che spinge i personaggi a interrogarsi sul loro passato e il loro futuro, sottolineando così il rischio dell’annullamento personale cui minaccia di portare l’affermarsi di una società frivola e materialista: dalle sue pagine traspare così una elevata paura per la perdita della propria identità, il timore di scomparire agli occhi del mondo e di diventare il banale surrogato di qualcun altro.

Volubile, inquieto, il secondo orologio suonava sulla scia del Big Ben, col suo grembo ingombro di sciocchezze.
Un altro tema fondamentale è il tempo che si impone all’interno della narrazione in due modi ben distinti. Da una parte, lo ritroviamo nella continua opposizione tra passato e presente, vita e morte, che forma una trama lungo la quale si snodano i vari personaggi, costantemente impegnati a ritornare con la mente al passato e farlo rivivere nel loro presente. Dall’altra, si manifesta con maestosità nei rintocchi delle campane del Big Ben che ne scandiscono l’incedere inesorabile e crudele, segno dell’avvicinarsi dell’ora della morte.

Anche l’amore distrugge. Tutto ciò che era bello, tutto ciò che era vero, finiva.

Quello che Virginia Woolf fa con questo romanzo è, a mio parere, qualcosa di straordinario che, se da un lato mette in luce il suo animo tormentato, dall’altro dimostra una profonda conoscenza dei meccanismi della mente umana. Nel fornire il complesso ritratto di una Londra che va via via perdendo il proprio senso di identità, Virginia si interroga sulle disastrose conseguenze di questo processo, e lo fa scandagliando l’animo umano fin nei suoi meandri più profondi e con un’intensità che non può certo lasciare indifferenti.
Per quanto possa sembrare un percorso anomalo, mi sono avvicinata a Virginia Woolf non attraverso le sue opere ma grazie al suo diario, in un periodo in cui mi interessava approfondire la letteratura diaristica. Il suo stile e l’intensità dei sentimenti che traspariva da quel testo mi hanno tuttavia immediatamente convinta di non trovarmi di fronte a un’autrice come tante ma a una donna che si faceva carico di molte più emozioni di quante il suo esile corpo ne potesse contenere, come testimonia del resto la sua tragica fine. Virginia Woolf è un torrente in piena, un pozzo che straripa di sentimenti, pensieri ed emozioni. La signora Dalloway riflette perfettamente questa sua personalità e i suoi tormenti interiori, portandoli alla luce nella magnifica forma di un romanzo breve ma intenso. Non conosco ancora le altre sue opere e non saprei come collocarlo al loro interno, ma ho amato questo libro, l’ho divorato e ha letteralmente assorbito la mia anima, per questo lo consiglio a tutti senza indugio, perché Virginia Woolf è un’autrice che semplicemente non può essere ignorata.

sabato 17 settembre 2016

"Autobiografia di una femminista distratta" di Laura Lepetit

Con una guest star d'eccezione ;)


Davanti ai libri mi sento come un cane da tartufi. Li cerco col naso, ne sento l’odore, capto i segnali che mandano e batto il terreno con il muso tra i cespugli.

Amo leggere le biografie: storie di vita vissuta di persone importanti, di persone interessanti, racconti di vittorie e sconfitte, di fallimenti superati e di successi ottenuti con il duro lavoro, il sacrificio e la passione. E ancora di più amo leggere le biografie di donne che si sono fatte strada nella vita, che strisciando e sgomitando sono riuscite ad aprirsi un varco in un mondo che per loro non è mai stato troppo facile e a lasciare in qualche modo il segno. Trovo che queste biografie ­– e in particolar modo le autobiografie – abbiano un doppio fascino e utilità: da una parte, avvicinarci a persone fisicamente o storicamente lontane, persone che ammiriamo e che rischiamo di cadere nell’errore di idealizzare, mostrandoci il loro lato più umano e allo stesso tempo sensazionale; dall’altra, esserci di ispirazione e suggerirci che in fondo, alla fine, possiamo farcela anche noi.

Ma chi è Laura Lepetit? Da sempre appassionata di letteratura dietro influenza della madre e del nonno, si laurea in Lettere Moderne all’Università Cattolica di Milano. Timida ma con le idee ben chiare, si trova, un po’ per caso e un po’ per gioco, a gestire con l’amica Anna Maria Gandini la libreria Milano Libri nella quale lavora nel decennio dal 1965 al 1975 e che diviene per lei fonte di esperienze e incontri stimolanti. Il primo contatto con il femminismo avviene molto presto, ma è solo dopo aver fatto la conoscenza della popolare femminista italiana Carla Lonzi che sceglie di farne un suo ideale. Nel 1975 Laura Lepetit fonda la casa editrice La tartaruga che si farà conoscere per il suo vasto repertorio di pubblicazioni tutte al femminile con autrici del calibro di Virginia Woolf e Alice Munro (entrambe troveranno presto spazio anche su questo blog!). Oggi La tartaruga non esiste più, poiché venne ceduta nel 1997 alla Baldini & Castoldi, ma il contributo che ha dato alla diffusione della letteratura femminile in Italia è e rimane indelebile.

Nei segni sul viso delle persone mature si legge tutta la loro vita. È come se il viso fosse una tela bianca e gli anni ci lasciassero sopra le loro tracce. Si può leggere se una vita è stata felice, se i desideri sono stati soddisfatti, se non restano rancori, si può leggere la rassegnazione, si possono leggere anche messaggi contraddittori, è molto interessante ed è un vero peccato cancellare tutto con la chirurgia e il botox.

In Autobiografia di una femminista distratta la Lepetit racconta la sua storia attraverso una serie di brevi capitoli che racchiudono episodi importanti della sua vita, ma anche riflessioni e pensieri sparsi, raccolti insieme in modo – per l’appunto – un po’ distratto. È così che si passa da questioni femministe, alle ragioni che l’hanno spinta ad aprire la sua casa editrice, a interrogarsi su cosa pensano i gatti fino a reminiscenze di quando era bambina, il tutto raccontato con un linguaggio piacevolmente semplice e sincero. L’impressione che si ha leggendo questo libro è quella di sedere sul terrazzo di una bella casa di campagna con la propria nonna e, mentre si ammira la natura verdeggiante cullate da una leggera brezza in un sereno pomeriggio di primavera, ascoltare il racconto della sua vita.

L’amore che la Lepetit nutre per i libri e le sue autrici emerge a più riprese nel corso del testo: a volte si tratta di libri che ha pubblicato con la sua casa editrice, altre di letture che l’hanno particolarmente colpita, altre ancora finisce con l’associare determinate persone o situazioni alle storie raccontate nelle sue letture o ai loro personaggi. Incontrare il libro giusto al momento giusto è un fatto fondamentale e necessario, afferma, ed è chiaro come ciò sia particolarmente vero nel suo caso, quello di una vita vissuta con e per i libri.

Parlare di sé, raccontare sensazioni, confrontare esperienze senza riguardo a età, classe o condizione sociale. L’essere donna formava il substrato comune, rivelava più somiglianze che differenze, più sorprese che luoghi comuni. Era la prima volta che le donne si parlavano direttamente, senza la maschera che il patriarcato le aveva costrette a indossare.

Un altro grande amore della Lepetit, oltre ai libri, è senza dubbio il femminismo. Il rapporto dell’autrice con questo movimento, tuttavia, non è sempre stato idilliaco – si trattava di un concetto ancora sconosciuto che si faceva strada in Italia proprio in quegli anni e che alle stesse donne appariva ancora estraneo – e prima di condividerne gli ideali, prima di farne la sua bandiera e forza motrice ha dovuto conoscerlo e comprenderlo più a fondo. Determinante in questo senso è stato l’incontro con Carla Lonzi che, confessa la Lepetit, ha cambiato la sua vita. Con Carla e il gruppo Rivolta Femminile la Lepetit instaurerà un rapporto solido e duraturo facendo propri slogan del Manifesto del gruppo quali “La donna è stufa di allevare un figlio che le diventerà un cattivo amante” e aprendo il cuore e la mente a una ideologia che man mano scoprirà riguardarla molto più da vicino di quanto potesse immaginare. Grazie alle influenze di Rivolta Femminile prima e del circolo culturale tutto al femminile del Cicip poi, Laura Lepetit diventerà così un’importante esponente del femminismo italiano e, decisa a dar voce alle donne di tutto il mondo, giungerà finalmente ad aprire la sua casa editrice, frutto e fonte di tanto lavoro e infinite soddisfazioni.

Se descrivessi Autobiografia di una femminista distratta come un’opera sensazionale ed estremamente illuminante mentirei, almeno per quanto mi riguarda. Nel suo essere un lavoro di enorme importanza per la sua autrice da una parte, e un pezzo di storia del femminismo in Italia raccontato con modestia e un pizzico di nostalgia dall’altra, si presenta al lettore come il "semplice" racconto della vita di una donna che ha saputo portare avanti i propri ideali, una di quelle storie che un giorno forse potremo raccontarci con le nostre amiche sedute davanti a un buon caffè. Come ho già detto, l’impressione che ho avuto leggendola è stato quello di una chiacchierata con la nonna che decide di rivelare il suo passato: una storia probabilmente più importante per chi la racconta che per chi la legge, ma pur sempre degna di essere raccontata e assolutamente gradevole da ascoltare.

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In chiusura approfitto di questo post per comunicarvi che la prossima settimana sarò a Torino e non ci saranno aggiornamenti del blog. Tornerò più attiva che mai dopo il 26. A presto! ;) 

venerdì 9 settembre 2016

"La nave per Kobe" di Dacia Maraini



Wow, mi sembra un’eternità che non scrivo una recensione. E in effetti, tra impegni di vario genere e altri argomenti che mi stanno particolarmente a cuore e di cui volevo parlare, è trascorso quasi un mese senza una singola recensione. Ovviamente le letture non si sono fermate – anche se sono avanzate un po’ a rilento – ma oggi sono finalmente qui per recensire un libro che ho letto un po’ di tempo fa e che ancora non avevo trovato le parole per commentare (e non sono certa di averle adesso).
Parlare di La nave per Kobe non è facile per me. Qualunque cosa dica, per quanto possa sforzarmi di trovare il giusto equilibrio tra analisi e discrezione, mi sembrerà sempre di non aver detto abbastanza e allo stesso tempo di essermi spinta troppo oltre, di aver varcato il confine di una dimensione personale e interiore cui non dovrei nemmeno avvicinarmi. Scrivere di questo libro mi fa sentire come un’intrusa, mi da la scomoda sensazione di mancare di rispetto alla sua autrice, come se stessi leggendo il suo diario segreto. Eppure la storia è lì, alla libera portata di tutti, bramosa di raggiungere il lettore.

Il primo sapore che ho conosciuto, e di cui conservo la memoria, è il sapore del viaggio. Un gusto di bagagli appena aperti: naftalina, lucido da scarpe e quel profumo che impregnava i vestiti di mia madre in cui affondavo la faccia con delizia. 

Ammetto che quando ho acquistato La nave per Kobe mi aspettavo un testo completamente diverso: una sorta di rivisitazione della sua esperienza giapponese attraverso i diari di sua madre. Ma del Giappone, i diari di Topazia, raccontano ben poco. Si tratta prevalentemente di brevi annotazioni sulle attività e lo stato di salute di Dacia e delle sue sorelle, vaghi riferimenti ad avvenimenti accaduti qua e là nel corso dei loro viaggi ma senza approfondimento alcuno.
Mi è piaciuto, sia chiaro. Mi è piaciuto fin troppo. Forse perché mi ha fatto scoprire un’autrice – che finora conoscevo soltanto di fama – il cui stile inconfondibile ha saputo deliziare il mio occhio di lettrice amante dei classici e delle belle parole, o forse perché la sua profondità e il suo valore intimistico hanno fatto abilmente leva sulle mie corde emotive. 

Paradossalmente penso che questo scritto possa essere per certi versi associato al genere giapponese dello zuihitsu – una raccolta di pensieri e riflessioni messe giù liberamente, come passano per la mente dell’autore – cui ho già accennato in un precedente post. Quello che fa la Maraini è infatti riportare qua e là le annotazioni di sua madre per poi ricamarci tutto intorno, costruire una solida e al contempo fragile tela, una rete di ricordi, pensieri, sentimenti, riflessioni, opinioni che si incontrano, si rincorrono, si fondono insieme accompagnando il lettore in un timido viaggio dentro se stessa.

Non sarà che il tempo è un’idea che ci facciamo di qualcosa che non c’è? Una astrazione arbitraria che costruiamo a nostra immagine e somiglianza e a cui diamo dei nomi di fantasia proprio nel tentativo disperato di trattenerlo, di dargli una forma?

In La nave per Kobe, la Maraini ritorna con la mente a diversi episodi del suo passato – i più piacevoli, come i divertimenti a volte un po’ incoscienti con l’amato padre, ma anche i più spiacevoli, dalla morte della sorella alla guerra vissuta in un campo di concentramento in Giappone – rivive quei momenti con una vena di malinconia e ripercorre i suoi pensieri più intimi. Attraverso questa esperienza l’autrice scopre un mezzo per esplorare se stessa e il suo rapporto con i membri della sua famiglia, amici e amanti. Ma coglie l’occasione anche per riflettere su questioni vicine e lontane, per dare una forma tangibile alle sue credenze e ai suoi ideali, interrogandosi – di tanto in tanto – in merito a questioni più elevate, domande che non hanno una risposta e che continuano ad abitare la sua mente.

Cos’è la diversità, poi, un sentimento? Una parete di carne? Un intruglio di odori riconoscibili? Non lo so nemmeno oggi.

Un tema che sta particolarmente a cuore all’autrice è senza dubbio quello della questione femminile, argomento che riprende più volte anche nel corso di quest’opera. Diversi sono gli avvenimenti che offrono alla Maraini l’occasione per tornare su questo tema, osservarne le dinamiche, interpretarle e proporre la sua analisi e le sue riflessioni. La sua è una aperta denuncia alla società, a ogni tipo di società, di qualunque parte del mondo, perché – afferma – in alcuni paesi le castrazioni sono fisiche, in altri simboliche.

Quale costrizione è più efficace di quella che si attua con il consenso e la sanzione dell’interessata? Essa non solo accetta il suo asservimento ma partecipa alla diffusione e al mantenimento dell’ideologia che lo consacra e lo idealizza, considerandolo parte naturale della sua sorte. Questo è stato fatto alle donne: ed è il delitto più grande. Rese conniventi della propria servitù e trasformate in guardiane ossequienti delle regole che imporranno poi alle figlie, alle nipoti.

Un’ultima cosa, infine, traspare dalle pagine di questo libro, ed è l’immenso amore che la sua autrice nutre per la letteratura. Dacia Maraini – dice – è cresciuta con i libri, ha vissuto con i libri e – penso che tutti lo possiamo confermare – vive di e per i libri. E proprio questi libri ritornano ciclicamente nel corso dell’opera sotto forma di citazioni, ricordi d’infanzia e riflessioni. Che i libri che ha letto nella sua vita, soprattutto le avventure di viaggi che tanto amava nella sua infanzia, siano stati i capisaldi della sua esistenza e formazione è indubbio, ma la nostalgia e l’entusiasmo con cui ne parla li presentano come delle vere e proprie gemme in un’esistenza, quella di Dacia, che già di per sé ha dell’avventuroso. Se non fossi già un’amante della lettura, sono certa che la Maraini, attraverso le parole che riserva alle sue letture, mi ci avrebbe fatta diventare. 

I paesi, ne sono convinta, si conoscono soprattutto attraverso i romanzi. Che ti portano passin passino dentro stanze e corridoi segreti di case lontane, in città sconosciute. Ti mettono in bocca sapori di minestre mai assaggiate, ti fanno toccare con la mano il rotondo dei muscoli di corpi amici e nemici, ti deliziano con il canto di una balia o con la mollezza sensuale di un riposo pomeridiano.

La nave per Kobe è una lettura intima e personale, forse perfino troppo. Uno scritto così naturale, così sincero, da appassionare e spaventare allo stesso tempo. E’ normale? E' giusto aprirsi fino a questo punto? Me lo sono chiesta più volte, quasi esitante, eppure ciò non ha saputo trattenermi dal divorarne letteralmente le pagine. La nave per Kobe non è un romanzo, non è nemmeno un diario, e probabilmente non è neppure l’opera ideale da cui iniziare per conoscere il lavoro della sua autrice. Nondimeno, è un libro che ho amato sinceramente e che mi ha fatto invaghire dello stile della Maraini tanto da convincermi ad approfondire e conoscere la sua bibliografia.

E voi, avete mai letto nulla di Dacia Maraini? Se avete opinioni, consigli e suggerimenti sono sempre ben accetti ;)

domenica 28 agosto 2016

Burkini sì? Burkini no?

Oggi su Biblioteca al femminile – che pur ponendosi prevalentemente come blog letterario è uno spazio che mira a occuparsi della donna a tutto tondo – non si parlerà di letteratura, bensì di un argomento piuttosto scottante che in quest’ultimo mese ha invaso media e social network, come possiamo per esempio vedere qui e qui, facendo molto parlare di sé e arrivando a toccare vertici abissali di ridicolaggine



Ora sembra che il Consiglio di stato francese abbia finalmente dichiarato illegale il provvedimento, ma l’improvviso divieto istituito da alcuni comuni francesi di presentarsi in spiaggia indossando il burkini merita di essere ancora discusso e non dimenticato tanto facilmente. Il veto imposto alla tenuta da spiaggia delle donne musulmane non è infatti una questione da sottovalutare, anche in merito alle numerose polemiche scatenate da parte degli appartenenti a due fondamentali correnti idealistiche. Da una parte, i nuovi sostenitori improvvisati dell’emancipazione femminile (che probabilmente fino al giorno prima – e forse tuttora – sostenevano con fermezza la teoria arcaica dell’uomo lavoratore e della donna regina del focolare) che accusano il burkini di essere, così come il velo, simbolo della sottomissione della donna nei paesi di religione islamica e si dichiarano assolutamente favorevoli a questa scelta che, ai loro occhi, appare come un primo passo verso l’indipendenza femminile e la liberazione dalla minaccia islamica. Dall’altra parte, coloro che in nome della loro “mentalità aperta” e dei loro (lodevoli, per carità) ideali di pace e amore e “siamo tutti belli e ci vogliamo tutti bene” condannano duramente la scelta perché, islamofoba e irrispettosa di tutto ciò che è diverso, vieta a queste donne di scegliere il proprio abbigliamento e manifestare liberamente la propria cultura e religione.

Diciamo che, in linea di massima, la mia opinione è decisamente più in linea con quella dei novelli figli dei fiori piuttosto che dei nuovi paladini della laicità dello Stato (che però diventa improvvisamente cattolico quando si parla di togliere i crocifissi dalle aule) e di una discutibile indipendenza femminile; tuttavia, ritengo che entrambe le fazioni sottovalutino alcuni elementi essenziali che fanno capo all’intera vicenda. Il divieto del burkini solleva infatti due questioni molto importanti: da una parte, il problema dell’effettivo livello di indipendenza in un’ipotetica libera scelta e, dall’altra, lo scontro fra sistemi di valori e la cosiddetta “legge del più forte”.

Ecco in cosa consiste il burkini.

Personalmente rifiuto ogni forma di umiltà e sottomissione all’uomo – di cui mi ritengo un individuo alla pari – e a maggior ragione, in qualità di atea quale mi considero, a un dio che non ho mai visto in volto. Tuttavia, rispetto la libertà di culto e di scelta e penso che chiunque sia libero di scegliere in cosa credere e cosa fare del proprio corpo.
È ormai risaputo che per molte donne di religione islamica quella di indossare il velo (e con esso il burkini) rappresenta a tutti gli effetti una scelta – anche se si incontrano opinioni divergenti fra chi parla di libertà di scelta, chi considera il velo indispensabile per manifestare la propria devozione a Dio, e il sito Islamitalia che sostiene che in realtà il Corano non menzioni la necessità per una donna di coprirsi il volto o i capelli e che il velo fosse semplicemente un indumento di uso comune allo scopo di distinguere le nobildonne dalle schiave ancora prima della stesura del testo sacro e sia stato in seguito strumentalizzato (se non addirittura portato all’eccesso nella forma del niqab e del burqa) da fondamentalismi più o meno radicati e da una società di forte stampo patriarcale. Ad ogni modo, anche se la maggior parte delle musulmane nel mondo gode della libertà di scelta, sappiamo come purtroppo numerose altre donne siano costrette dai loro mariti o, peggio ancora, dalla legge a nascondersi sotto veli sempre più pesanti – come testimonia questa interessantissima campagna nata in Iran in cui i mariti hanno scelto di indossare il velo per protesta a sostegno delle proprie mogli. La questione però è: sappiamo se le donne che incontriamo ogni giorno per strada indossano quel velo per scelta o per costrizione? E soprattutto, anche nel caso di scelta, fino a che punto può essere considerata effettivamente tale e non frutto di un tacito condizionamento sociale?

Una panoramica delle diverse tipologie di velo e di quali sono considerate più appropriate in alcuni dei più importanti paesi di religione islamica.

Per intenderci, penso che una donna che sceglie di indossare il velo (o, in questo caso, il burkini – fermo restando che una persona, per i più diversi motivi, può benissimo desiderare di andare a farsi un giro al mare senza mostrare a tutti le sue grazie) non sia in nulla diversa da una ragazza italiana di provincia che sceglie di sposarsi giovane e figliare come non ci fosse un domani senza aspirare a una determinata carriera lavorativa e che critica la tua scelta di non avere figli perché “non sai cosa vuol dire”, o da una ragazza giapponese che – dopo aver dato alla luce dei figli – si eclissa dal mondo del lavoro per dedicarsi anima e corpo alla cura della casa e della famiglia. Ognuna di queste donne ha scelto da sé la propria vita, lo ha fatto consenzientemente e ne è felice, e probabilmente nessuno le avrebbe mai impedito di compiere una scelta diversa. Eppure possiamo davvero dire che si tratti di una scelta libera da ogni sorta di condizionamento? Per alcune probabilmente sì, ma molte altre avranno agito in quel modo perché è quello che fanno tutte, perché così sono state educate, perché avevano paura di deludere le aspettative di qualcuno, o semplicemente perché non conoscono un’alternativa e questa è l’unica possibilità concreta che si presenta ai loro occhi. Una scelta libera non sarà mai completamente tale finché esisterà un modello da seguire ed è evidente come ancora oggi – e non solo nei paesi a prevalenza islamica – non si sia riusciti a liberarsi completamente da quello storicamente imposto alle donne. Tuttavia, per quanto libera o inconsciamente condizionata, una scelta rimane pur sempre tale e finché rappresenterà una fonte di piacere e serenità per la persona che la compie merita di essere rispettata.

Non vedo nessuna differenza...

A questo punto entra dunque in gioco la seconda grande questione sollevata dal veto posto al burkini sulle spiagge francesi: è corretto proibirne l’utilizzo? La risposta è semplice: no. 
Sia che si tratti di una scelta che di una imposizione, porre alle donne musulmane un divieto sull’utilizzo di un indumento (finché rientra nelle norme di legge e lascia scoperto il volto) è sbagliato. Nel primo caso, perché si impedirebbe a queste donne di esercitare il proprio diritto di libertà di scelta sulla base di tutta una serie di preconcetti frutto di una società non meno patriarcale di quella che si tende ad accusare e che vede la donna come una figura debole e incapace di scegliere ciò che è meglio per sé, e di pregiudizi di natura razzista che condannano senza mezzi termini un’azione non in linea con il proprio sistema di valori. Nel secondo caso, perché la norma non faciliterebbe affatto la vita delle presunte vittime, finendo piuttosto con l’isolarle ancora di più e ostacolarne ogni forma di integrazione. La legge dell’occhio per occhio dente per dente non ha mai portato a grandi risultati e rispondere a una presunta imposizione con un’altra imposizione nella direzione contraria non è certo la soluzione ma casomai un’aggravante che rischia di alimentare incomprensioni e rivalità, e che anziché punire l’oppressore si scaglia ancora una volta contro la sua vittima.

Vietare il burkini in spiaggia non è quindi la soluzione al problema della sottomissione femminile ma soltanto un modo per arginarlo, per nasconderlo ai nostri occhi illudendoci e compiacendoci di averlo risolto, in nome della nostra ormai storica “superiorità di occidentali che abbiamo a tutti da insegnare”. Ma prima di continuare ad andare in giro per il mondo a pretendere di educare e “civilizzare” ogni cultura straniera e “arretrata” – la storia non insegnerà MAI nulla all’essere umano – dovremmo fermaci un attimo a pensare e cercare di capire (non dovrebbe essere nemmeno così difficile) che laddove si vada a ledere la libertà di scelta ed espressione di un individuo si commette SEMPRE un gravissimo errore nei confronti dell’umanità, nonché un reato ai sensi delle nostre tanto decantate Costituzioni. E allora perché non provare a capire cosa queste donne veramente vogliono? Perché, anziché vietare loro ciò che dall’altra parte viene loro imposto, finendo così con l’agire nello stesso identico modo dei loro presunti oppressori, non impegnarci a costruire una società dove possano veramente essere libere di scegliere? “Ma è difficile.” “Ma non è facile capire cosa vogliono.” “Ma a noi non danno le stesse risposte che danno ai loro mariti.” No, queste NON sono le risposte. Tutto quello che vale la pena fare è difficile (cit.), ma proprio perché è importante, proprio perché ne vale la pena, non possiamo liquidarlo con un semplice “ma è difficile”.



E allora qual è il problema? Il problema è che come sempre predichiamo bene e razzoliamo male. Il problema è che anche nel nostro evoluto occidente, ancora oggi, l’uomo e la società si sentono in diritto di esercitare il controllo sulla vita di una donna. Il problema è che quello che pretendiamo di insegnare agli altri è qualcosa che nemmeno noi siamo ancora riusciti a imparare. Non illudiamoci, come vogliono farci credere, di aver conquistato la parità fra i sessi, perché purtroppo la strada per riuscirci è ancora lunga. Non crediamo a quelli che ci dicono che “non abbiamo bisogno del femminismo”, perché il solo fatto che lo temano così tanto è la prova che dobbiamo ancora lottare in suo favore.



mercoledì 24 agosto 2016

#PrayforItaly

Per oggi avevo in programma un post che mi sta molto a cuore, ma al risveglio ho trovato una bruttissima notizia di cui immagino tutti sarete al corrente. Io abito nel freddo e umido nord e non ho avuto alcuna percezione del terremoto ma continuare a leggere notizie come questa che si aggravano di ora in ora mi spezza il cuore.

Vorrei chiedere perché. Ma so che è inutile. Siamo solo uomini e siamo totalmente inermi difronte alla forza prorompente della natura. Non possiamo contrastarla, solo provare a resisterle. Disperarci anche, perché fa troppo male. E poi rialzarci, con il cuore a pezzi, e ricostruire ciò che ci ha così barbaramente portato via, e aiutarci più che possiamo perché l'amore, il coraggio e la solidarietà sono tutto ciò che ci rimane e tutto ciò di cui abbiamo bisogno per andare avanti.

Non sono brava con le parole in questi casi, non so mai cosa dire, ma sono vicina a tutti coloro che sono stati colpiti da questa terribile tragedia. Non credo in un dio, ma prego la terra perché possa concedere una tregua a tutte queste persone e perché dalle macerie che ha causato possano non emergere più vittime.

Sarà dura, ma la forza arriverà ♥︎

venerdì 19 agosto 2016

"The White Queen" di Philippa Gregory



Un genere letterario che ho recentemente imparato ad apprezzare è senza dubbio la fiction storica, in particolare se dedicata alle storie di famose e intriganti regine del passato. (Ok, diciamo pure che ultimamente è diventata un po’ un’ossessione che mi ha portata a riempire la mia libreria di nomi quali Philippa Gregory, Alison Weir e Kate Quinn)
Philippa Gregory, in particolare, è un’autrice che conta numerosi consensi ma altresì altrettanti dissensi fra le file dei lettori e questo per la sua tendenza a manipolare la storia, a non attenersi rigidamente alla verità storica dei fatti ma a condirli con leggende e la narrazione in prima persona delle sue numerose eroine. Quest’ultimo fattore in particolare ha la caratteristica di dar voce alle donne del passato, di mostrarci gli avvenimenti, e le terribili ingiustizie subite, attraverso i loro occhi, arricchendo la narrazione di una chiara impronta femminista. Personalmente, adoro lo stile e la prosa della Gregory e trovo la sua scelta narrativa oltremodo interessante: da una parte, perché permette al lettore di immedesimarsi nelle sue protagoniste e nella vita cui erano condannate in un’epoca in cui il femminismo, di certo, non esisteva ancora e le donne non erano considerate che uno strumento di potere da far fruttare attraverso i matrimoni per dar vita a succose alleanze; dall’altra, perché sebbene le sue storie siano condite da un’impronta decisamente di fiction la ricerca storica alla base è senza dubbio molto approfondita e non vedo nulla di sbagliato nell’aggiungere elementi di fantasia a un’opera che è sì storica, ma è anche e soprattutto fiction.


Passando all’opera in questione, The White Queen è il primo volume della serie intitolata The Cousins’ War e dedicata alle donne della Guerra delle due rose che vede protagonisti gli scontri fra le famiglie rivali dei Plantageneti nell’Inghilterra del XV secolo: gli York e i Lancaster.
The White Queen, in particolare, narra la storia di Elizabeth Woodville – madre dei tristemente noti Principi della torre e futura nonna materna del forse più celebre Enrico VIII – una giovane donna che, alla morte del marito sostenitore dei Lancaster, grazie alla sua bellezza, forza d’animo e determinazione riesce a diventare moglie di Edoardo IV di York e Regina d’Inghilterra. Non sa però che mantenere la sua posizione e proteggere la sua famiglia le costerà immenso dolore e un grande coraggio. Tra omicidi, insidie e tradimenti, Elizabeth, donna e madre prima ancora che regina, si ritroverà tutta sola a combattere per i propri diritti e la difesa dei suoi figli.

Un ritratto di Elizabeth Woodville
There is a part of me, young woman that I am, that wants to run inside and fling myself on my bed and cry myself to sleep. But I don’t do that. I am not one of my sisters, who laugh easily and cry easily. They are girls to whom things happen; and they take it hard. But I bear myself as more than a silly girl. I am the daughter of a water goddess. I am a woman with water in her veins and power in her breeding. I am a woman who makes things happen: and I am not defeated yet. I am not defeated by a boy with a newly won crown, and no man will ever walk away from me certain that he won’t walk back.

La narrazione ripercorre tutta la storia di Elizabeth dal suo incontro con Edoardo IV al leggendario (e profondamente romanzato) incidente dei Principi della torre e all’imminente prospettiva di matrimonio tra la figlia Elizabeth ed Enrico VII, figlio della rivale Margaret Beaufort ed erede dei Lancaster. La Elizabeth Woodville descritta da Philippa Gregory non è una regina perfetta e infallibile ma come ogni essere umano ha le sue debolezze e commette i suoi errori: il suo personaggio è portato in scena prima di tutto come una donna e una madre, non una regina, e ogni sua azione è mossa o fortemente influenzata – ma non per questo giustificata – dall’amore che nutre per i suoi figli. Certo, trattandosi di avvenimenti realmente accaduti il libro lascia ben poco spazio a eventuali sorprese, nondimeno la splendida prosa della Gregory riesce a trasportare il lettore tra le pagine, a coinvolgerlo nelle vicende della sua protagonista, a commuoverlo ed emozionarlo, a fargli rivivere la nota storia come se la stesse leggendo per la prima volta. Questo grazie anche alla magistrale caratterizzazione che l’autrice fa della sua protagonista e al continuo parallelismo con Melusina, creatura leggendaria – per la precisione, una fata dell’acqua dal corpo di donna ma con la coda di pesce o di serpente – che sposa un umano a patto che le permetta una volta a settimana di rimanere da sola senza essere vista. L’uomo infrange il tabù spiando la donna e rimane disgustato dalla sua vera natura. Questa sua bravata condannerà egli alla rovina e Melusina a rimanere una sirena per sempre.

Una rappresentazione della leggenda di Melusina a opera di Julius Hubner

La leggenda della dea Melusina, storicamente legata alla famiglia di Elizabeth, prosegue in parallelo alle vicende della protagonista, legandosi e intrecciandosi al loro svolgersi e donando alla narrazione un’atmosfera al contempo drammatica e fiabesca. 

She is not a boy though she is weak like a boy, nor a fool though he has seen her tremble with feeling like a fool. She is not a villain in her capacity to hold a grudge, nor a saint in her flashes of generosity. She is not any of these male qualities. She is a woman. A thing quite different to a man. What he saw was a half-fish, but what frightened him to his soul was the being which was a woman.

Trovo che le donne della storia siano troppo spesso dimenticate in favore degli uomini che hanno fatto la guerra e, con questa, conquistato nuovi territori e difeso i loro regni. Ma sedere fra le mura domestiche, circondate dall’amore dei propri figli mentre i mariti sono sul campo di battaglia, spesso richiede molto più coraggio che prendere in mano una spada e lanciarsi all’attacco: è il coraggio di sopravvivere, di difendere la propria famiglia, di non lasciarsi schiacciare da chi sarà sempre lì, immediatamente pronto a volgere la situazione a proprio favore. Troppo spesso ci dimentichiamo che la forza non è solo quella fisica e che molto spesso la forza psicologica richiede molto più coraggio. Philippa Gregory, attraverso i suoi romanzi, fa proprio questo: concede il dovuto spazio alle donne “dimenticate” della storia, porta in primo piano le loro personali battaglie e dona loro lo spazio che meritano.
The White Queen è un ottimo esempio di questo intento da parte dell'autrice e, molto probabilmente, Elizabeth Woodville è una delle protagoniste più affascinanti e interessanti che potesse scegliere per dare inizio a una saga che fin dall’inizio sembra promettere molto bene. Personalmente ho adorato questo libro e la storia della Regina Bianca continua ad appassionarmi anche dopo averlo riposto sulla libreria: una donna che da semplice popolana è riuscita a salire al trono d’Inghilterra e che, quando le è stato strappato con il tradimento, ha lottato con ogni mezzo in suo possesso per proteggere i suoi figli ma senza mai rinunciare alla sua dignità.



Per chi fosse interessato, The White Queen esiste in traduzione italiana con il titolo La regina della rosa bianca. Dal libro è stata inoltre tratta una celebre serie tv in dieci episodi trasmessa dalla BBC e con Rebecca Ferguson nei panni di Elizabeth.

giovedì 11 agosto 2016

"Cinder" di Marissa Meyer


Vanity is a factor, but it is more a question of control. It is easier to trick others into perceiving you as beautiful if you can convince yourself you are beautiful. But mirrors have an uncanny way of telling the truth.

Da uno dei più coinvolgenti classici delle sorelle Bronte a uno young adult, perché sì, è bello variare.
Ammetto di essere sempre piuttosto prevenuta quando si tratta di questo genere per via delle storie non sempre valide e dello stile spesso troppo banale e, diciamocelo, non sempre professionale. Tuttavia, era da diverso tempo che continuavo a leggere recensioni di Cinder, primo volume della saga The Lunar Chronicles di Marissa Meyer, in giro per il web e morivo dalla voglia di immergermi in questa affascinante rivisitazione della più antica di tutte le fiabe, anche e soprattutto perché sono io stessa una grandissima appassionata di fiabe e principesse.

La lettura, devo ammetterlo, non mi ha entusiasmato come mi aspettavo, probabilmente perché leggendo i commenti dei lettori mi ero fatta aspettative che andavano ben al di là di ciò che il libro in realtà offriva. Ad ogni modo, ci sono anche molte cose che ho apprezzato e per cui sono decisa a leggere il seguito della storia. Ma proseguiamo con la trama. :)

Cinder è un cyborg che gestisce una piccola officina per androidi a New Beijing, una città situata in un ipotetico futuro dove gli umani convivono con gli androidi e la popolazione è minacciata da un’epidemia di peste. Cinder, come tutti i cyborg, è considerata una cittadina di seconda categoria e per questa ragione cerca di nascondere il più possibile la sua vera natura. Un bel giorno, però, il principe Kaito si presenta nel suo negozio per chiederle di sistemare il suo androide e da quel momento la vita di Cinder verrà completamente stravolta.

Il mio primo impatto con Cinder, devo ammetterlo, non è stato estremamente positivo per via dello stile con cui si presentava il testo a livello estetico. Mi sono tuttavia abituata relativamente in fretta a questa scelta editoriale, complice anche lo stile semplice e scorrevole dell’autrice, finendo con il trovarla addirittura piacevole. 

La prima pagina di Cinder. Ora che ci ho fatto l'abitudine non ci vedo più nulla di strano ma inizialmente tutto quello spazio fra le righe è stato un vero e proprio shock!

Passando ai contenuti, che sono la cosa più importante, la storia ricalca quasi fedelmente – seppur con le dovute differenze di personaggi e ambientazioni – le vicende della Cenerentola più tradizionale e si presenta come un retelling originale e assolutamente piacevole. Devo però ammettere che mi aspettavo molti più colpi di scena mentre in realtà la trama si rivela piuttosto scontata e fin dalle prime pagine è possibile intuire come si evolveranno i fatti. La cosa non è tuttavia estremamente disturbante e la storia è così piacevole, e reminiscente della fiaba originale, da poter essere ugualmente apprezzata. Un altro problema che ho riscontrato, e che reputo caratteristica comune di diversi young adult, è invece l’eccessiva attenzione rivolta all’azione rispetto allo sviluppo psicologico dei personaggi. In poche parole, Cinder è un’opera più narrativa e meno introspettiva e questo implica, almeno per quanto mi riguarda, la difficoltà a immedesimarsi nei protagonisti e lasciarsi coinvolgere pienamente dalle loro vicende. Ciononostante, i personaggi riescono comunque a risultare interessanti ed è facile trovarsi a simpatizzare per Cinder, ma anche per Iko, Peony o il principe Kai.

I principali temi proposti dall’opera, al di là della rivisitazione della fiaba, sono la discriminazione del diverso, l’ostentazione dell’aspetto esteriore, la manipolazione e l’omologazione delle masse. Nel corso della narrazione è inoltre impossibile non cogliere i numerosi riferimenti a Sailor Moon; cosa che, da fan, mi ha riempito il cuore di gioia. Tuttavia, leggendolo avevo sempre la sensazione che il testo mancasse di qualcosa: tante belle tematiche, tante interessanti ispirazioni, ma sempre trattate con una certa superficialità e mai adeguatamente approfondite.

Cinder, devo ammetterlo, mi ha un po' deluso. Non perché non sia un buon lavoro – o per lo meno un lavoro piacevole – ma perché leggendo le recensioni mi ero fatta molte aspettative positive che sono purtroppo state infrante. Il libro, in realtà, presenta molte idee carine e interessanti, ma a volte ho come l’impressione che si abbandoni troppo alla semplicità e alla scontatezza quando invece potrebbe approfondirle maggiormente. Scarseggiano inoltre le descrizioni dei personaggi e del mondo cui fanno parte: l’ambientazione è intuibile ma non prende mai chiaramente forma nel corso della narrazione, lasciandoti nella mente immagini di personaggi che sembrano muoversi nel vuoto. 

In definitiva, ho trovato Cinder interessante ma un po' acerbo. Se lo si considera nell’ottica di quello che è - uno young adult per ragazzine che cercano letture avvincenti ma leggere – allora Cinder è un buon primo volume per una saga che potrebbe avere, se ben sfruttato, molto potenziale (anche se è impossibile non notare il calo di qualità rispetto ad altre opere ugualmente per giovani lettori ma molto meglio scritte e caratterizzate – un nome a caso: Harry Potter – e insomma, diciamocelo, una volta anche i libri per ragazzi erano libri di qualità!); ma da un punto di vista prettamente letterario lo considero un lavoro debole, con ottimi spunti ma che – mi auguro per inesperienza, poiché darebbe all’autrice la possibilità di migliorarsi – non sono stati gestiti al meglio. Ad ogni modo, da appassionata di fiabe quale sono, ho deciso di dare ancora una possibilità a questa saga e leggere anche il secondo volume, Scarlet, di cui posterò senz’altro una recensione a tempo debito.

martedì 2 agosto 2016

"Cime tempestose" di Emily Bronte



Continua la mia scoperta dei classici delle amatissime sorelle Bronte e questa volta è il turno di Cime tempestose, l’unico romanzo pubblicato da Emily, seconda delle tre sorelle, e indubbiamente uno dei più conosciuti e amati. Confesso di essermi avvicinata a questo romanzo non senza un briciolo di esitazione a causa delle numerose recensioni che ho letto online e che si dividevano tra alcune super entusiaste e altre che manifestavano una profonda delusione. Da neofita amante dei classici e alimentata da un’irrefrenabile voglia di conoscerne il maggior numero possibile, ho scelto però di non lasciarmi influenzare e di giudicare con i miei stessi occhi. 
Che dire, il mio voto è senza dubbio positivo! Così positivo da permettergli di entrare non certo nella mia top 3, ma comunque nella rosa dei miei titoli preferiti di sempre.

Salì sul letto e spalancò di furia la finestra, scoppiando, mentre lottava per aprirla, in un’incontrollabile e tragica esplosione di pianto.
“Entra, entra!” singhiozzava. “Entra, Cathy. Oh, entra. Ancora una volta! Oh, diletta dell’anima mia, ascoltami questa volta, ascoltami infine, Catherine!”
[…]
Vi era una tale angoscia nell’esplosione di dolore che accompagnava quella sorta di delirio che la compassione mi spinse a dimenticare tanta follia, e mi allontanai, dolendomi quasi di avere ascoltato, pentito di aver narrato il mio ridicolo incubo dal momento che era stato causa di tale indicibile sofferenza; sebbene non riuscissi a comprendere perché.

Il Signor Lockwood si trasferisce in una dimora conosciuta come Trushcross Grange dove poter trovare un po’ di solitudine in cui rimanere solo con i suoi pensieri. Andando in visita al suo affittuario, lo scontroso Heathcliff, a Wuthering Heights, rimane tuttavia colpito da lui e dagli strani individui con cui condivide la sua abitazione: una giovane fanciulla un po’ scorbutica e un ragazzotto rozzo e dall’aria poco intelligente. È durante una prolungata malattia che il Signor Lockwood chiede a Ellen Dean, la governante di Thrushcross Grange, di raccontargli la storia di quella strana famiglia.
Attraverso il racconto della donna, che occupa la maggior parte della storia, veniamo così a conoscere il passato di Heathcliff, un piccolo zingaro senza famiglia accolto nella sua casa dal Signor Earnshaw e da lui cresciuto come un figlio, e del suo amore passionale ma contrastato con la bella Catherine, sua sorella adottiva. Nonostante lo splendido rapporto con Catherine, infatti, Heathcliff non è altrettanto amato dal fratello di lei, Hindley. Alla morte del Signor Earnshaw, Hindley prenderà possesso di Wuthering Heights permettendo a Heathcliff di rimanere ma declassandolo alla condizione di servo e privandolo completamente di ogni forma di educazione. Questa situazione porterà a un progressivo allontanamento della giovane coppia che indurrà la viziata ed egoista Catherine, seppure ancora innamorata del fratellastro, a cercare il buon nome e la stabilità nel matrimonio con il cugino Edgard Linton. Da questo momento Heathcliff, perdutamente innamorato di Catherine ma violento e rozzo nella sua natura, cercherà di dare pian piano forma alla sua lenta ma distruttiva vendetta nei confronti di tutti coloro che, a detta sua, lo hanno privato della vita.


La prima cosa che mi ha colpito di questo romanzo è la natura stessa dei suoi personaggi. Generalmente tendiamo ad amare racconti i cui protagonisti ci colpiscono perché in qualche modo li sentiamo vicini, perché ispirano in noi una qualunque sorta di ammirazione, o curiosità, o empatia. Penso siano rari, almeno per quanto mi riguarda, i casi in cui si riesce ad amare un romanzo provando tuttavia un sentimento avverso nei confronti del suo protagonista; fino a oggi mi era successo solo con Emma di Jane Austen. La cosa sorprendente di Cime tempestose è che nessuno, non uno dei numerosi personaggi che si muovono al suo interno è non dico piacevole, ma anche solo tollerabile. Ci troviamo infatti di fronte a personaggi viziati, egoisti, vendicativi, spesso rozzi o violenti, quasi sempre ossessivi o ossessionati da qualcosa. La forza motrice di questa storia è l’odio e il desiderio di vendetta che ne deriva, anche quando scaturisce dall’amore, e di odio vivono tutti i personaggi che ne fanno parte. Neanche per un istante ho apprezzato anche un solo personaggio di questo romanzo, eppure la storia mi ha travolto con la sua disarmante forza brutale, mi ha fatto provare rabbia e dolore, e così facendo ha colpito nel segno.

“[…] Non lo avrei mai allontanato da lei fino a quando lei avesse desiderato vederlo. Nell’istante stesso in cui l’affetto di Catherine fosse cessato, gli avrei strappato il cuore e avrei bevuto il suo sangue! Ma fino ad allora, se non mi credi non mi conosci, fino ad allora sarei morto istante dopo istante prima di toccargli un solo capello!”

Quella di Cime tempestose non è una storia d’amore, ma una storia di ossessioni, di vendetta e di una famiglia distrutta. Fin dalle prime pagine si presenta per la sua essenza selvaggia, per quell’istinto violento che anima i suoi personaggi, crudo e indomabile al punto da farli apparire quasi più come bestie che esseri umani. Anche la tormentata storia d’amore fra Heathcliff e Catherine, per quanto apparentemente naturale e sincera, è frutto di un sentimento folle e malato che porta lui ad annullarsi completamente nel pensiero di lei, e lei, troppo ridicolosamente piena di sé per considerare l’esistenza di chiunque altro, a lasciarsi ossessionare dal riflesso della sua anima in quella di Heathcliff. Impossibile provare affetto o empatia per i due giovani amanti, eppure se Catherine non può che suscitare profonde idiosincrasie, Heathcliff, pur nella sua cattiveria e brutalità, pur non essendo in alcun modo giustificabile, riesce a renderci in qualche modo partecipi del suo dolore e delle sue emozioni, quelle di una vita ormai andata distrutta e che non troverà pace finché non riuscirà a fare altrettanto con quella di coloro che ne ritiene i vili responsabili.

“[…] ho solo una preghiera – la ripeterò finché la mia lingua si seccherà: Catherine Earnshaw, possa tu non trovare mai riposo fino a che io sarò in vita! Hai detto che ti ho ucciso – torna dunque e perseguitami! Gli assassinati, credo, perseguitano i loro assassini; so che ci sono stati fantasmi che vagavano sulla terra. Sii sempre con me – sotto qualsiasi forma – portami alla pazzia! Ma non lasciarmi in questo abisso in cui non posso trovarti! La mia sofferenza è indicibile! Non posso vivere senza la mia vita! Non posso vivere senza la mia anima!”

Ho trovato letteralmente impossibile non farmi travolgere dalla violenta ondata di passione e sentimenti di Cime tempestose. Alcuni lettori hanno commentato la loro personale delusione nei confronti di questo romanzo asserendo che “Emily non è Charlotte”. E no, Emily non è Charlotte. E non ha nemmeno alcun motivo di esserlo. Stilisticamente parlando, in effetti, Emily manca completamente della penna elegante e raffinata della sorella, che rimane ancora la mia preferita. Ma il suo stile, più grezzo e diretto, è l’ideale per questa storia che di raffinato ed elegante non ha proprio nulla, ma che ha invece un animo violento, selvaggio, irriverente. È proprio la sua penna, infatti, ad accentuare il carattere ossessivo e l’animo tormentato dei suoi personaggi, e a donare maggiore enfasi alla follia che si snoda come un filo elettrico attraverso la loro storia. 
Personalmente, ho sinceramente amato questo romanzo che ha saputo emozionarmi come pochi altri e di certo è un titolo che consiglierei senza troppi indugi a ogni buon lettore. E con questo, dichiaro ufficialmente aperta la caccia agli altri romanzi delle interessantissime sorelle Bronte! ;)

martedì 26 luglio 2016

"Mia amata Yuriko" di Antonietta Pastore



Andammo a prendere Yuriko alla stazione dello shinkansen, il treno superveloce, in un piovoso pomeriggio di maggio. La donna che vidi venire verso di noi, all’uscita dei tornelli, aveva poco in comune con la ragazza della foto sul molo. L’ovale del viso, la delicatezza dei tratti erano gli stessi, ma dell’espressione sbarazzina non restava più traccia.

Le storie semplicemente raccontate, devo ammetterlo, non sono mai state molto il mio genere. Ho sempre avuto la tendenza a prediligere i classici e grossi mattoni ricchi di introspezione psicologica e spesso mi sono trovata delusa da racconti, possiamo dire, più “semplici”. Ma la trama di Mia amata Yuriko mi attirò fin dalla prima volta che la lessi, forse anche per via del mio legame con il Giappone, o per il fatto che la sua autrice altri non è se non la brillante traduttrice di Murakami Haruki, e così ho deciso di concedermi questa lettura.

Yuriko è una giovane vitale e anticonformista che trova l’amore in Yoshi, erede di una importante famiglia di stirpe samuraica. L’amore fra i due, seppure non bene accetto dalla famiglia di lui, sfocia in un sereno matrimonio che sembra però non essere destinato a durare a lungo. La Yoshiko che conosce Antonietta Pastore, autrice e voce narrante della storia, non è la ragazza felice e spensierata delle foto di un tempo, ma una figura minuta, quasi sbiadita dal peso della sofferenza, oggetto di incommensurabili premure da parte della sua famiglia e devota al ricordo di un ex marito che la stessa Pastore non capisce come possa ancora amare. Cosa nasconde quella figura così esile e al tempo stesso misteriosa? Cos’è successo a Yuriko e al suo ex marito? Perché tutti si preoccupano sempre così profondamente per lei?
Alternando la sua esperienza personale al racconto della storia di Yuriko, così come le viene rivelata, Antonietta Pastore ci narra la vera storia di una zia del suo ex marito: una storia che assomiglia in parte a una favola ma che nasconde in realtà una triste realtà e la profonda sofferenza che molti, ancora oggi, sono condannati a portarsi sulle spalle.

In ogni caso, era evidente che l’immagine del marito che Yuriko aveva conservato per tanti anni, cui si aggrappava ancora, che difendeva con ogni mezzo, era quella del tempo in cui lui l’amava, in cui le era accanto e la rendeva felice. Quella fissata nella fotografia che avevo sotto gli occhi.

Mia amata Yuriko è un libro lieve, delicato, che ci accompagna in punta di piedi in una storia che ha dell’irreale ma che è in realtà assolutamente e terribilmente reale, nella sua dolcezza così come nella sua crudeltà. Attraverso questa storia, la Pastore ci offre il racconto di una storia incredibile che ha serbato per anni in un angolo della sua anima e che semplicemente meritava di essere raccontata, fosse anche solo per donare un filo di speranza in un mondo che, oggi più che mai, si lascia sempre più trasportare dall’odio. Ma ci dona anche un importante spunto di riflessione, aprendo una finestra su un mondo a noi forse ancora poco conosciuto ma che ancora oggi vede ruotare attorno a sé le innumerevoli vite di persone condannate all’ingiustizia di una discriminazione che non hanno mai fatto nulla per meritare. E Antonietta Pastore, a mio parere, svolge un ottimo lavoro proprio nella fluidità con cui lascia che la storia scorra fra le sue dita, alimentando la curiosità del lettore nei confronti della misteriosa Yuriko ma senza mai perdere di vista la delicatezza delle scene e l’attenzione alla quotidianità di un paese a noi lontano come il Giappone. 

In definitiva, ammetto di aver apprezzato questo libro molto più di quanto mi aspettassi. Una storia semplice e leggera ma deliziosa, che ti lascia, infine, con una piacevole sensazione di calore e serenità, ma anche con l’amaro in bocca per una società che sembra renderci ogni giorno un po’ meno umani.