martedì 26 luglio 2016

"Mia amata Yuriko" di Antonietta Pastore



Andammo a prendere Yuriko alla stazione dello shinkansen, il treno superveloce, in un piovoso pomeriggio di maggio. La donna che vidi venire verso di noi, all’uscita dei tornelli, aveva poco in comune con la ragazza della foto sul molo. L’ovale del viso, la delicatezza dei tratti erano gli stessi, ma dell’espressione sbarazzina non restava più traccia.

Le storie semplicemente raccontate, devo ammetterlo, non sono mai state molto il mio genere. Ho sempre avuto la tendenza a prediligere i classici e grossi mattoni ricchi di introspezione psicologica e spesso mi sono trovata delusa da racconti, possiamo dire, più “semplici”. Ma la trama di Mia amata Yuriko mi attirò fin dalla prima volta che la lessi, forse anche per via del mio legame con il Giappone, o per il fatto che la sua autrice altri non è se non la brillante traduttrice di Murakami Haruki, e così ho deciso di concedermi questa lettura.

Yuriko è una giovane vitale e anticonformista che trova l’amore in Yoshi, erede di una importante famiglia di stirpe samuraica. L’amore fra i due, seppure non bene accetto dalla famiglia di lui, sfocia in un sereno matrimonio che sembra però non essere destinato a durare a lungo. La Yoshiko che conosce Antonietta Pastore, autrice e voce narrante della storia, non è la ragazza felice e spensierata delle foto di un tempo, ma una figura minuta, quasi sbiadita dal peso della sofferenza, oggetto di incommensurabili premure da parte della sua famiglia e devota al ricordo di un ex marito che la stessa Pastore non capisce come possa ancora amare. Cosa nasconde quella figura così esile e al tempo stesso misteriosa? Cos’è successo a Yuriko e al suo ex marito? Perché tutti si preoccupano sempre così profondamente per lei?
Alternando la sua esperienza personale al racconto della storia di Yuriko, così come le viene rivelata, Antonietta Pastore ci narra la vera storia di una zia del suo ex marito: una storia che assomiglia in parte a una favola ma che nasconde in realtà una triste realtà e la profonda sofferenza che molti, ancora oggi, sono condannati a portarsi sulle spalle.

In ogni caso, era evidente che l’immagine del marito che Yuriko aveva conservato per tanti anni, cui si aggrappava ancora, che difendeva con ogni mezzo, era quella del tempo in cui lui l’amava, in cui le era accanto e la rendeva felice. Quella fissata nella fotografia che avevo sotto gli occhi.

Mia amata Yuriko è un libro lieve, delicato, che ci accompagna in punta di piedi in una storia che ha dell’irreale ma che è in realtà assolutamente e terribilmente reale, nella sua dolcezza così come nella sua crudeltà. Attraverso questa storia, la Pastore ci offre il racconto di una storia incredibile che ha serbato per anni in un angolo della sua anima e che semplicemente meritava di essere raccontata, fosse anche solo per donare un filo di speranza in un mondo che, oggi più che mai, si lascia sempre più trasportare dall’odio. Ma ci dona anche un importante spunto di riflessione, aprendo una finestra su un mondo a noi forse ancora poco conosciuto ma che ancora oggi vede ruotare attorno a sé le innumerevoli vite di persone condannate all’ingiustizia di una discriminazione che non hanno mai fatto nulla per meritare. E Antonietta Pastore, a mio parere, svolge un ottimo lavoro proprio nella fluidità con cui lascia che la storia scorra fra le sue dita, alimentando la curiosità del lettore nei confronti della misteriosa Yuriko ma senza mai perdere di vista la delicatezza delle scene e l’attenzione alla quotidianità di un paese a noi lontano come il Giappone. 

In definitiva, ammetto di aver apprezzato questo libro molto più di quanto mi aspettassi. Una storia semplice e leggera ma deliziosa, che ti lascia, infine, con una piacevole sensazione di calore e serenità, ma anche con l’amaro in bocca per una società che sembra renderci ogni giorno un po’ meno umani.

martedì 19 luglio 2016

“Persepolis” di Marjane Satrapi



Fin da quando ho iniziato a leggere fumetti (per lo più giapponesi), in prima media, mi rendo conto di aver sempre commesso un grossissimo errore: ho sempre scelto le storie da leggere in base allo stile del disegno, e se la grafica non era particolarmente graziosa scartavo il fumetto a priori. In questo modo ho perso (ma intendo recuperare presto!) storie che molti fan del genere descrivono come le più belle e appassionanti di tutti i tempi. Con il tempo ho però imparato che il disegno non è tutto e ho deciso di aprirmi a nuove storie e nuovi stili e, perché no, anche a qualcosa di un po’ più occidentale.

- Regola n.6: tutti devono avere un’automobile; regola n.7: tutte le domestiche devono mangiare insieme ai loro padroni; regola n.8: nessuna vecchietta deve più soffrire.
[…]
- Ma dì un po’, come potresti fare in modo che le vecchiette non soffrano?
- Beh, è semplice, sarebbe vietato.

Vidi il film di Persepolis tempo fa in tv, del tutto per caso, e rimasi particolarmente colpita e affascinata dalla sua storia ma anche dai suoi disegni, semplici ma proprio per questo efficacemente d’impatto. La scelta di leggere il fumetto non mi ha però sfiorata fino a qualche giorno fa, quando ho visto che era stato scelto per Our Shared Shelf, il gruppo di lettura femminista ideato da Emma Watson.

In Persepolis, Marjane Satrapi ripercorre la sua storia dall’infanzia fino a una più completa maturità attraverso un volume unico pieno di sentimento, umanità e profonde riflessioni. Lo stile di disegno, cui ho già accennato, è a mio parere una delle caratteristiche fondamentali dell’opera. Grazie al suo tratto lineare, quasi stilizzato, l’autrice riesce a convogliare la sua storia e il suo messaggio in modo diretto, immediato, con un’ingenuità quasi infantile e a tratti perfino crudele.
Ma ciò che, più di ogni altra cosa, rende unico questo fumetto è la sua storia, il suo linguaggio, i messaggi di cui si fa portavoce, la sua capacità di essere così reale, così vicino e condivisibile che potrebbe facilmente essere la storia di ognuno di noi, e proprio per questo dal sapore così amaro.

Il regime aveva capito che una persona che usciva di casa domandandosi: “Avrò i pantaloni abbastanza lunghi? Sarà a posto il foulard? Si noterà che sono un po’ truccata? Mi frusteranno?”, non si chiedeva più: “Dov’è andata a finire la mia libertà di pensiero? Potrò mai esprimermi liberamente? Vale la pena continuare a vivere? Cosa fanno i prigionieri politici?”. È naturale! Quando si ha paura, si perde la nozione dell’analisi e della riflessione. La paura paralizza. Del resto il terrore è sempre stato il motore di tutte le dittature.

Persepolis è un fumetto in cui ci si può immedesimare, le cui idee si possono facilmente condividere, ma è anche, e soprattutto, un fumetto che ha molto da raccontare, molto da comunicare, molto da insegnare. Una storia che fa emozionare e riflettere. Una storia in cui possiamo ritrovare noi stessi ma anche capire qualcosa in più sugli altri, che – soprattutto di questi tempi – non fa mai male!
Attraverso la storia della sua infanzia, adolescenza e giovinezza, Marjane Satrapi ci racconta anche un periodo fondamentale della storia del suo paese, l’Iran, e della radicalizzazione del culto islamico, una religione – ma anche una civiltà e una popolazione - che troppi pretendono di conoscere ma che solo pochi sembrano conoscere veramente (e io non mi considero certo fra questi ultimi ma, fortunatamente, nemmeno fra i primi). Persepolis affronta innumerevoli tematiche sempre attuali e sempre più bisognose di essere conosciute e discusse: la rivoluzione islamica, lo scontro fra culture e la difficoltà d’integrazione, i pregiudizi e la negazione di sé che ne deriva, la perdita di autostima e il senso di non appartenenza, la condizione femminile, le ingiustizie, la paura…

Dire che ho adorato questo fumetto è dir poco. Non è sempre facile imbattersi in un’opera divertente e commovente, delicata e diretta, ingenua e matura allo stesso tempo, e quando ci si riesce si sa di aver trovato un piccolo gioiellino. Consiglio la lettura di Persepolis e la consiglio a tutti, senza eccezioni, perché è una storia semplice e bellissima che si è presa un pezzo del mio cuore, che ha molto da insegnare e che tocca tematiche fondamentali di cui è importante non smettere mai di parlare.

martedì 12 luglio 2016

“Jane Eyre” di Charlotte Bronte



Io non sono un uccello e non c’è rete che possa intrappolarmi; sono un essere umano dotato di libertà e di una volontà indipendente, di cui ora mi valgo per lasciarvi.

Mi sono a lungo interrogata su quale avrebbe dovuto essere la prima recensione postata su Biblioteca al femminile, ma credo che la risposta fosse scontata fin dall’inizio. Jane Eyre è letteralmente uno dei libri più belli che abbia mai letto e con una delle protagoniste più spettacolari che ricordi. So che molti avranno già letto e riletto questo libro – o almeno avranno visto e rivisto uno dei suoi innumerevoli adattamenti televisivi e cinematografici – ma penso che non si finisca, e non si debba mai finire di parlare di Jane Eyre (e se invece davvero non l’avete ancora letto, allora non dovete assolutamente farvelo mancare ancora a lungo!).

Jane Eyre è una giovane istitutrice che decide di allontanarsi dall’istituto in cui è cresciuta e lavora per prendere servizio a Thornfield Hall, dimora di proprietà della famiglia Rochester. È qui che la sua vita cambierà facendo la conoscenza del padrone di casa, il brusco e affascinante Edward Rochester, e portando alla nascita di una tenera storia d’amore fra i due. Ma il passato di lui è pronto a tornare a bussare alla sua porta, o meglio, a scendere da quella soffitta in cui è stato a lungo imprigionato...


Jane Eyre racconta una storia d’amore ma non parla solo di una storia d’amore. È un romanzo sulla crescita personale, sulla maturazione individuale e sentimentale della sua protagonista, sulla ricerca e la conquista dell’indipendenza. 
Jane si evolve da bambina impulsiva in una giovane donna consapevole dei propri limiti e delle proprie forze, in una giovane donna che fa della sua istruzione e del suo orgoglio, del suo rispetto per se stessa, la sua arma più importante in un mondo, quello dell’Inghilterra vittoriana, in cui la differenza fra ricchi e poveri è ancora fortemente incoraggiata e in cui le donne non sono ancora che mere creature di serie B costrette ad affidare il proprio destino alle cure e alla protezione di un uomo. Accumulando esperienze, Jane impara così a contenere la propria impulsività senza reprimere la sua volontà e i suoi sentimenti; impara ad amare e a farsi amare, non come donna, ma come singolo individuo, indipendentemente dal suo sesso e dalla sua posizione sociale, ma solo sulla base della persona che è, delle sue conquiste, del suo valore di essere umano indipendente e dotato della capacità di discernere. 

“Perché dovrei restare, per diventare nulla per voi? Pensate che sia un automa? Una macchina senza sentimenti? Che possa sopportare di vedermi strappare di bocca il mio tozzo di pane e rovesciare dal bicchiere il sorso d’acqua che mi dà la vita? Pensate che, perché sono povera, sconosciuta, insignificante e piccola, non abbia un’anima e un cuore? Pensate male! Ho un’anima grande proprio come la vostra e un cuore altrettanto ricco! E se Dio mi avesse dotato di bell’aspetto e abbondanti ricchezze, allora vi avrei reso la separazione altrettanto difficile quanto lo è per me.”

Non solo ci troviamo davanti a una storia meravigliosa e scritta egregiamente, in Jane Eyre c’è proprio tutto: la storia e la crescita interiore di una giovane donna, una storia d’amore, passione, ma anche dramma, mistero, introspezione psicologica… Ma un ruolo di primo piano in questa splendida storia è riservato anche alla questione femminista, alla critica dell’immagine frivola della donna, schiava dell’apparenza e delle ricchezze, al riconoscimento dell’indipendenza femminile e della capacità della donna di farsi strada nel mondo.

“E tu, Janet, cosa farai mentre io sono occupato a contrattare tante tonnellate di carne e un tale assortimento di occhi neri?”
“Mi preparerò a partire come missionaria per predicare la libertà alle donne ridotte in schiavitù, comprese le ospiti del vostro harem. Mi introdurrò tra loro e le inciterò alla rivolta; e voi, pascià a tre code quale siete, signore, in un batter d’occhio vi ritroverete incatenato, nelle nostre mani; e non acconsentirò a sciogliervi dalle catene finché non avrete firmato uno statuto, il più liberale che despota abbia mai accordato.”

Ciò che contribuisce a conferire fascino a questa già di per sé splendida opera è però la sua eroina: Jane Eyre è, a mio parere, una delle migliori protagoniste che la letteratura abbia mai avuto da offrire. Intelligente, forte ed emancipata, corretta ma mai disposta a piegarsi, Jane è la prova che si può essere coraggiose senza per forza dover ricorrere alla violenza o rinunciare alla propria educazione, che è possibile far valere la propria posizione senza ricorrere all’arroganza e alla violenza. 


Nel suo saggio Perché leggere i classici?, Italo Calvino dice che un classico “è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”. E Jane Eyre è un classico profondo, intenso, fondamentale per tutte le tematiche di cui si fa portavoce, e un libro che, anche alla millesima rilettura, avrà sempre qualcosa di nuovo da raccontare, da dire e da insegnare.

martedì 5 luglio 2016

A proposito di letteratura femminile…

Una donna con un libro: la più forte combattente e tra le sue mani l'arma più potente.

Salve a tutti miei adorati (futuri?) lettori e benvenuti su Biblioteca al femminile, un blog che ho deciso di dedicare alla mia passione per la lettura, e al mio interesse per la questione femminista e l’universo femminile. E soprattutto, un blog che ho deciso di regalarmi per la mia laurea (che è stata proprio ieri, festaaa!), nella speranza di aver sempre un luogo in cui continuare a discutere le tematiche e gli argomenti che mi stanno particolarmente a cuore. Per il momento è solo un piccolo germoglio nel fin troppo vasto universo internettiano, ma spero di crescerlo con tutto il mio amore e un giorno di poter guardare con orgoglio al bellissimo frutto del mio impegno e della mia passione.

Per oggi, per inaugurare Biblioteca al femminile, ho scelto di discutere un tema che riguarderà da vicino la natura e il contenuto di questo blog e di introdurlo con una domanda che considero lecito e doveroso porsi: 

È corretto parlare di letteratura femminile?

Personalmente non credo nella letteratura femminile come genere perché la definizione non ci dice nulla del libro che abbiamo fra le mani, della sua storia o dei suoi personaggi. Non ci dice niente nemmeno dell’autrice, si limita solo a definirne il sesso. Reputo inoltre l’accezione di letteratura “femminile”, utilizzata come genere (e credetemi che esistono librerie in giro per il mondo che, ancora oggi, hanno intere sezioni dedicate alla “letteratura femminile” dove raggruppano insieme opere di ogni forma, colore e sostanza accomunate dal solo fatto di avere come autrice una donna!), un termine discriminante, poiché nato in un contesto in cui l’arte e la cultura erano considerate prerogativa maschile e le donne venivano relegate ai margini del mondo letterario.

La celebre poetessa giapponese del XI secolo, Izumi Shikibu.

Concordo sul fatto che in linea generale, seppur con le dovute eccezioni e le numerose caratteristiche individuali, uomini e donne possano essere dotati di una diversa sensibilità – o forse è meglio parlare di un diverso istinto – in parte dovuta anche ai rigidi canoni culturali imposti dalle nostre società. Dopotutto, siamo di fatto biologicamente diversi, su questo credo ci sia ben poco da obiettare, e credo che, come ogni cosa, anche questo fattore giochi un po' la sua parte. Penso però che ci siano tanti modi di fare letteratura quante sono le donne esistenti al mondo, e che lo stesso valga per gli uomini. Non è il sesso dell’autore a decretare il genere di un libro: un giallo appartiene alla categoria dei gialli, un fantasy ai fantasy, una commedia alle commedie, e questo indipendentemente dal sesso del suo autore. Per questo trovo utilizzare la dicitura “letteratura femminile” come indicazione di genere letterario non solo errato, ma anche biasimevole e sessista.

Pertanto ci tengo a precisare che Biblioteca al femminile non vuole essere un blog sulla letteratura “femminile” ma sulla letteratura “al femminile”, dove la donna è al tempo stesso autrice (perché in un mondo in cui il suo editore propone a J.K. Rowling di pubblicare Harry Potter utilizzando uno pseudonimo maschile così “venderà di più” è ancora necessario promuovere e diffondere le opere di autrici femminili!) e protagonista, e quando è protagonista il sesso del suo autore non ha più alcuna importanza. Per questo, la dicitura “Narrativa al femminile” che titolerà una delle rubriche del blog non vuole intendere quel “femminile” come un genere letterario, ma indicare che, indipendentemente dal genere, tratterò unicamente opere di autrici femminili; allo stesso modo in cui, nel caso opposto, avrei fatto con il termine “maschile”.

E allora me lo dico da sola: buona avventura, Biblioteca al femminile!