sabato 17 settembre 2016

"Autobiografia di una femminista distratta" di Laura Lepetit

Con una guest star d'eccezione ;)


Davanti ai libri mi sento come un cane da tartufi. Li cerco col naso, ne sento l’odore, capto i segnali che mandano e batto il terreno con il muso tra i cespugli.

Amo leggere le biografie: storie di vita vissuta di persone importanti, di persone interessanti, racconti di vittorie e sconfitte, di fallimenti superati e di successi ottenuti con il duro lavoro, il sacrificio e la passione. E ancora di più amo leggere le biografie di donne che si sono fatte strada nella vita, che strisciando e sgomitando sono riuscite ad aprirsi un varco in un mondo che per loro non è mai stato troppo facile e a lasciare in qualche modo il segno. Trovo che queste biografie ­– e in particolar modo le autobiografie – abbiano un doppio fascino e utilità: da una parte, avvicinarci a persone fisicamente o storicamente lontane, persone che ammiriamo e che rischiamo di cadere nell’errore di idealizzare, mostrandoci il loro lato più umano e allo stesso tempo sensazionale; dall’altra, esserci di ispirazione e suggerirci che in fondo, alla fine, possiamo farcela anche noi.

Ma chi è Laura Lepetit? Da sempre appassionata di letteratura dietro influenza della madre e del nonno, si laurea in Lettere Moderne all’Università Cattolica di Milano. Timida ma con le idee ben chiare, si trova, un po’ per caso e un po’ per gioco, a gestire con l’amica Anna Maria Gandini la libreria Milano Libri nella quale lavora nel decennio dal 1965 al 1975 e che diviene per lei fonte di esperienze e incontri stimolanti. Il primo contatto con il femminismo avviene molto presto, ma è solo dopo aver fatto la conoscenza della popolare femminista italiana Carla Lonzi che sceglie di farne un suo ideale. Nel 1975 Laura Lepetit fonda la casa editrice La tartaruga che si farà conoscere per il suo vasto repertorio di pubblicazioni tutte al femminile con autrici del calibro di Virginia Woolf e Alice Munro (entrambe troveranno presto spazio anche su questo blog!). Oggi La tartaruga non esiste più, poiché venne ceduta nel 1997 alla Baldini & Castoldi, ma il contributo che ha dato alla diffusione della letteratura femminile in Italia è e rimane indelebile.

Nei segni sul viso delle persone mature si legge tutta la loro vita. È come se il viso fosse una tela bianca e gli anni ci lasciassero sopra le loro tracce. Si può leggere se una vita è stata felice, se i desideri sono stati soddisfatti, se non restano rancori, si può leggere la rassegnazione, si possono leggere anche messaggi contraddittori, è molto interessante ed è un vero peccato cancellare tutto con la chirurgia e il botox.

In Autobiografia di una femminista distratta la Lepetit racconta la sua storia attraverso una serie di brevi capitoli che racchiudono episodi importanti della sua vita, ma anche riflessioni e pensieri sparsi, raccolti insieme in modo – per l’appunto – un po’ distratto. È così che si passa da questioni femministe, alle ragioni che l’hanno spinta ad aprire la sua casa editrice, a interrogarsi su cosa pensano i gatti fino a reminiscenze di quando era bambina, il tutto raccontato con un linguaggio piacevolmente semplice e sincero. L’impressione che si ha leggendo questo libro è quella di sedere sul terrazzo di una bella casa di campagna con la propria nonna e, mentre si ammira la natura verdeggiante cullate da una leggera brezza in un sereno pomeriggio di primavera, ascoltare il racconto della sua vita.

L’amore che la Lepetit nutre per i libri e le sue autrici emerge a più riprese nel corso del testo: a volte si tratta di libri che ha pubblicato con la sua casa editrice, altre di letture che l’hanno particolarmente colpita, altre ancora finisce con l’associare determinate persone o situazioni alle storie raccontate nelle sue letture o ai loro personaggi. Incontrare il libro giusto al momento giusto è un fatto fondamentale e necessario, afferma, ed è chiaro come ciò sia particolarmente vero nel suo caso, quello di una vita vissuta con e per i libri.

Parlare di sé, raccontare sensazioni, confrontare esperienze senza riguardo a età, classe o condizione sociale. L’essere donna formava il substrato comune, rivelava più somiglianze che differenze, più sorprese che luoghi comuni. Era la prima volta che le donne si parlavano direttamente, senza la maschera che il patriarcato le aveva costrette a indossare.

Un altro grande amore della Lepetit, oltre ai libri, è senza dubbio il femminismo. Il rapporto dell’autrice con questo movimento, tuttavia, non è sempre stato idilliaco – si trattava di un concetto ancora sconosciuto che si faceva strada in Italia proprio in quegli anni e che alle stesse donne appariva ancora estraneo – e prima di condividerne gli ideali, prima di farne la sua bandiera e forza motrice ha dovuto conoscerlo e comprenderlo più a fondo. Determinante in questo senso è stato l’incontro con Carla Lonzi che, confessa la Lepetit, ha cambiato la sua vita. Con Carla e il gruppo Rivolta Femminile la Lepetit instaurerà un rapporto solido e duraturo facendo propri slogan del Manifesto del gruppo quali “La donna è stufa di allevare un figlio che le diventerà un cattivo amante” e aprendo il cuore e la mente a una ideologia che man mano scoprirà riguardarla molto più da vicino di quanto potesse immaginare. Grazie alle influenze di Rivolta Femminile prima e del circolo culturale tutto al femminile del Cicip poi, Laura Lepetit diventerà così un’importante esponente del femminismo italiano e, decisa a dar voce alle donne di tutto il mondo, giungerà finalmente ad aprire la sua casa editrice, frutto e fonte di tanto lavoro e infinite soddisfazioni.

Se descrivessi Autobiografia di una femminista distratta come un’opera sensazionale ed estremamente illuminante mentirei, almeno per quanto mi riguarda. Nel suo essere un lavoro di enorme importanza per la sua autrice da una parte, e un pezzo di storia del femminismo in Italia raccontato con modestia e un pizzico di nostalgia dall’altra, si presenta al lettore come il "semplice" racconto della vita di una donna che ha saputo portare avanti i propri ideali, una di quelle storie che un giorno forse potremo raccontarci con le nostre amiche sedute davanti a un buon caffè. Come ho già detto, l’impressione che ho avuto leggendola è stato quello di una chiacchierata con la nonna che decide di rivelare il suo passato: una storia probabilmente più importante per chi la racconta che per chi la legge, ma pur sempre degna di essere raccontata e assolutamente gradevole da ascoltare.

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In chiusura approfitto di questo post per comunicarvi che la prossima settimana sarò a Torino e non ci saranno aggiornamenti del blog. Tornerò più attiva che mai dopo il 26. A presto! ;) 

venerdì 9 settembre 2016

"La nave per Kobe" di Dacia Maraini



Wow, mi sembra un’eternità che non scrivo una recensione. E in effetti, tra impegni di vario genere e altri argomenti che mi stanno particolarmente a cuore e di cui volevo parlare, è trascorso quasi un mese senza una singola recensione. Ovviamente le letture non si sono fermate – anche se sono avanzate un po’ a rilento – ma oggi sono finalmente qui per recensire un libro che ho letto un po’ di tempo fa e che ancora non avevo trovato le parole per commentare (e non sono certa di averle adesso).
Parlare di La nave per Kobe non è facile per me. Qualunque cosa dica, per quanto possa sforzarmi di trovare il giusto equilibrio tra analisi e discrezione, mi sembrerà sempre di non aver detto abbastanza e allo stesso tempo di essermi spinta troppo oltre, di aver varcato il confine di una dimensione personale e interiore cui non dovrei nemmeno avvicinarmi. Scrivere di questo libro mi fa sentire come un’intrusa, mi da la scomoda sensazione di mancare di rispetto alla sua autrice, come se stessi leggendo il suo diario segreto. Eppure la storia è lì, alla libera portata di tutti, bramosa di raggiungere il lettore.

Il primo sapore che ho conosciuto, e di cui conservo la memoria, è il sapore del viaggio. Un gusto di bagagli appena aperti: naftalina, lucido da scarpe e quel profumo che impregnava i vestiti di mia madre in cui affondavo la faccia con delizia. 

Ammetto che quando ho acquistato La nave per Kobe mi aspettavo un testo completamente diverso: una sorta di rivisitazione della sua esperienza giapponese attraverso i diari di sua madre. Ma del Giappone, i diari di Topazia, raccontano ben poco. Si tratta prevalentemente di brevi annotazioni sulle attività e lo stato di salute di Dacia e delle sue sorelle, vaghi riferimenti ad avvenimenti accaduti qua e là nel corso dei loro viaggi ma senza approfondimento alcuno.
Mi è piaciuto, sia chiaro. Mi è piaciuto fin troppo. Forse perché mi ha fatto scoprire un’autrice – che finora conoscevo soltanto di fama – il cui stile inconfondibile ha saputo deliziare il mio occhio di lettrice amante dei classici e delle belle parole, o forse perché la sua profondità e il suo valore intimistico hanno fatto abilmente leva sulle mie corde emotive. 

Paradossalmente penso che questo scritto possa essere per certi versi associato al genere giapponese dello zuihitsu – una raccolta di pensieri e riflessioni messe giù liberamente, come passano per la mente dell’autore – cui ho già accennato in un precedente post. Quello che fa la Maraini è infatti riportare qua e là le annotazioni di sua madre per poi ricamarci tutto intorno, costruire una solida e al contempo fragile tela, una rete di ricordi, pensieri, sentimenti, riflessioni, opinioni che si incontrano, si rincorrono, si fondono insieme accompagnando il lettore in un timido viaggio dentro se stessa.

Non sarà che il tempo è un’idea che ci facciamo di qualcosa che non c’è? Una astrazione arbitraria che costruiamo a nostra immagine e somiglianza e a cui diamo dei nomi di fantasia proprio nel tentativo disperato di trattenerlo, di dargli una forma?

In La nave per Kobe, la Maraini ritorna con la mente a diversi episodi del suo passato – i più piacevoli, come i divertimenti a volte un po’ incoscienti con l’amato padre, ma anche i più spiacevoli, dalla morte della sorella alla guerra vissuta in un campo di concentramento in Giappone – rivive quei momenti con una vena di malinconia e ripercorre i suoi pensieri più intimi. Attraverso questa esperienza l’autrice scopre un mezzo per esplorare se stessa e il suo rapporto con i membri della sua famiglia, amici e amanti. Ma coglie l’occasione anche per riflettere su questioni vicine e lontane, per dare una forma tangibile alle sue credenze e ai suoi ideali, interrogandosi – di tanto in tanto – in merito a questioni più elevate, domande che non hanno una risposta e che continuano ad abitare la sua mente.

Cos’è la diversità, poi, un sentimento? Una parete di carne? Un intruglio di odori riconoscibili? Non lo so nemmeno oggi.

Un tema che sta particolarmente a cuore all’autrice è senza dubbio quello della questione femminile, argomento che riprende più volte anche nel corso di quest’opera. Diversi sono gli avvenimenti che offrono alla Maraini l’occasione per tornare su questo tema, osservarne le dinamiche, interpretarle e proporre la sua analisi e le sue riflessioni. La sua è una aperta denuncia alla società, a ogni tipo di società, di qualunque parte del mondo, perché – afferma – in alcuni paesi le castrazioni sono fisiche, in altri simboliche.

Quale costrizione è più efficace di quella che si attua con il consenso e la sanzione dell’interessata? Essa non solo accetta il suo asservimento ma partecipa alla diffusione e al mantenimento dell’ideologia che lo consacra e lo idealizza, considerandolo parte naturale della sua sorte. Questo è stato fatto alle donne: ed è il delitto più grande. Rese conniventi della propria servitù e trasformate in guardiane ossequienti delle regole che imporranno poi alle figlie, alle nipoti.

Un’ultima cosa, infine, traspare dalle pagine di questo libro, ed è l’immenso amore che la sua autrice nutre per la letteratura. Dacia Maraini – dice – è cresciuta con i libri, ha vissuto con i libri e – penso che tutti lo possiamo confermare – vive di e per i libri. E proprio questi libri ritornano ciclicamente nel corso dell’opera sotto forma di citazioni, ricordi d’infanzia e riflessioni. Che i libri che ha letto nella sua vita, soprattutto le avventure di viaggi che tanto amava nella sua infanzia, siano stati i capisaldi della sua esistenza e formazione è indubbio, ma la nostalgia e l’entusiasmo con cui ne parla li presentano come delle vere e proprie gemme in un’esistenza, quella di Dacia, che già di per sé ha dell’avventuroso. Se non fossi già un’amante della lettura, sono certa che la Maraini, attraverso le parole che riserva alle sue letture, mi ci avrebbe fatta diventare. 

I paesi, ne sono convinta, si conoscono soprattutto attraverso i romanzi. Che ti portano passin passino dentro stanze e corridoi segreti di case lontane, in città sconosciute. Ti mettono in bocca sapori di minestre mai assaggiate, ti fanno toccare con la mano il rotondo dei muscoli di corpi amici e nemici, ti deliziano con il canto di una balia o con la mollezza sensuale di un riposo pomeridiano.

La nave per Kobe è una lettura intima e personale, forse perfino troppo. Uno scritto così naturale, così sincero, da appassionare e spaventare allo stesso tempo. E’ normale? E' giusto aprirsi fino a questo punto? Me lo sono chiesta più volte, quasi esitante, eppure ciò non ha saputo trattenermi dal divorarne letteralmente le pagine. La nave per Kobe non è un romanzo, non è nemmeno un diario, e probabilmente non è neppure l’opera ideale da cui iniziare per conoscere il lavoro della sua autrice. Nondimeno, è un libro che ho amato sinceramente e che mi ha fatto invaghire dello stile della Maraini tanto da convincermi ad approfondire e conoscere la sua bibliografia.

E voi, avete mai letto nulla di Dacia Maraini? Se avete opinioni, consigli e suggerimenti sono sempre ben accetti ;)